Amadou, spiega le “lupare bianche” in Guinea

«Mio padre, una vittima: picchiato brutalmente, è scomparso nel nulla; mia sorella violentata, l’uomo assolto per insufficienza di prove; mio cugino morto in mare nel tentativo di raggiungermi: “questione di ore, sto arrivando”, il suo ultimo messaggio. Studio, un giorno vorrei insegnare filosofia»

In Italia le chiamano “lupare bianche”. Vittime i morti ammazzati dalla mafia, del potere sporco che compie l’azione più vigliacca che esista: far sparire due volte, togliendogli la vita e non facendo trovare più il cadavere, chi non è d’accordo con il “sistema”. Quello accaduto nel suo Paese, la Guinea, ad Amadou è qualcosa di simile alla “lupara” mafiosa. «Mio padre, Mamadou, non era d’accordo con il partito politico che voleva prendersi il potere a tutti i costi, tanto da provocare una guerra civile, un conflitto etnico: così un maledetto giorno, l’ultimo in cui vidi mio padre, vennero a casa a prelevarlo; una scusa banale, eravamo scossi, ma lo trascinarono via con violenza».

In Guinea l’anticamera della “lupara” ha un nome altrettanto sinistro: “prigione del silenzio”. Così la chiamano. «Ti trascinano – racconta Amadou – ed è in una di queste prigioni che comincia il tuo annientamento, mentale e fisico; muori quando uno dei due, il corpo o la mente, si indeboliscono al punto tale da abbandonarti: è la fine, non c’è ragione che tenga; ci sono aguzzini, uomini senza cuore che trattano gli esseri umani al pari delle bestie, posto che gli animali non andrebbero maltrattati; cominciano con l’affamarti, proseguono con il picchiarti, non conoscono ragione, la condanna è stata già inflitta, muori nel peggiore dei modi: ti addormenti e, allora, ti svegliano; ti picchiano daccapo, non ce la fai, ti addormenti… Una storiaccia senza fine; invochi, quasi, che la facciano finita in un attimo, non puoi pensare al sangue del tuo sangue a cui stanno infliggendo torture senza fine: anche noi non dormivamo, avevamo nelle orecchie la voce di papà, pensavamo alle sue urla, forse, o ai suoi silenzi, avendo un carattere forte, chi può dirlo».

UNA STORIACCIA

Una lunga agonia. «Chiedevamo alle autorità notizie su papà, ma senza avere soddisfazione, quando tre mesi dopo il prelievo da casa del mio genitore, vennero a riferirci che Mamadou era morto; un avvertimento anche per noi, perché la storiaccia non era finita, il peggio doveva ancora arrivare: nei nostri confronti c’era un atteggiamento sottile, non tanto a dire il vero: cominciarono a renderci la vita impossibile; come gli ebrei nella Germania di Hitler, io e i miei familiari nella mia Guinea venivamo indicati come “etiopi”, come se fosse stato un reato essere di un altro Paese: io sono guineano, lo urlavo a chiunque ci usasse violenza».

Amadou conosce  storia e cronaca, se fa riferimento alla Germania hitleriana e alle “lupare” mafiose. «Ho letto molto, studiato al liceo, poi causa mancanza risorse economiche, ho dovuto lasciare i banchi di scuola: mi mancavano due anni di studio, poi avrei preso la maturità; un giorno vorrei diventare insegnante di filosofia; una volta in Italia, Paese rispettoso, ho ricominciato dalla scuola media, ma va bene anche così, spero di coronare il mio sogno, anche se so che è molto difficile: conosco inglese e francese, con l’italiano già me la cavo nonostante risieda qui da meno di due anni».

VIOLENZA SENZA SOSTA E DOLORE

La scomparsa di papà non è l’unica brutta storia. In mezzo, violenza, fuga, dolore. «Dopo la morte di mio padre, la cattiveria nei nostri confronti non conosceva sosta: mia sorella Aissatou, più grande di me, fu violentata; denunciò l’uomo, puntualmente assolto dal tribunale per mancanza di prove; fu così che mia madre la prese con sé per fuggire in Costa d’Avorio; anche a me non restava che scappare, non esisteva altro modo per evitare la fine di papà. Mi imbarcai in Libia per arrivare in Italia: qui, poco per volta, ho ripreso a vivere, studio, mi tengo in costante contatto con mia sorella Aissatou e Alphaoumar, mio fratello più piccolo; spero un giorno di poterli riabbracciare; mamma, purtroppo, non c’è più».

Altra sventura. «Spero siano davvero finite le brutte notizie che tanto hanno segnato la mia vita, nonostante i miei soli ventitré anni. Doveva raggiungermi un mio cugino, era stato lui ad aiutarmi a mettere insieme un po’ di soldi per pagarmi il viaggio dalla Libia all’Italia; anche lui aveva racimolato del danaro, si era imbarcato, mi aveva mandato una foto non appena salito a bordo della sua imbarcazione; sorridente, il suo messaggio: “questione di ore, fratello, sto arrivando”. E’ stato vittima di un incidente in mare, purtroppo anche lui è morto, un’altra pagina triste. Sento amici al telefono, mi chiedono come stia, le conversazioni finiscono sempre con la promessa di rivederci presto; spero davvero che tutto questo un giorno accada davvero».