Senegalese, diciannove anni, studia e sogna. «Se non diventassi un calciatore, faccio l’elettricista, il lavoro ti fa guadagnare rispetto», racconta. Bidonato in Marocco, rapinato in Algeria e Libia. Poi il viaggio per l’Italia, il soccorso di una nave norvegese e la sensazione di essere salvo.
«A casa mia, un tempo, la mia vita era tutta studio e campo di calcio, quel rettangolo che riuscivamo a mettere insieme, spesso con quattro canne di bambù a delimitare le porte in un rettangolo di gioco, spesso improvvisato…». Poi qualcosa, nella vita di Lanssana, senegalese di Dakar, diciannove anni, da un anno e quattro mesi in Italia, cambia. In Senegal, relaziona Amnesty international, i politici limitano diritti e libertà d’espressione. Carceri sovraffollate per chiunque manifesti un’idea bollata in quanto non in linea con il governo. Poliziotti impuniti, nonostante uccidano senza motivo. Questo il quadro che si presenta agli occhi del giovane. Un dramma familiare. «Mio padre viene a mancare – ricorda – con la sua scomparsa anche il sostegno alla famiglia che, comunque, di sacrifici anche fino a quel momento, ne aveva fatti: due anni di studi, nella scuola superiore, frequentata in quel momento sono costretto a cestinarli, non abbiamo più soldi per completare il mio ciclo di studi; del resto, devo spendermi per la famiglia, dare il mio contributo, anche se modesto: mi cimento in lavoretti, mercatini, mi invento qualsiasi cosa».
La vita sembra scorra in modo più o meno normale. Non c’è più la guida saggia del papà, che riusciva a mediare qualsiasi tipo di contrasto. Più che all’interno della famiglia, con i vicini parenti. «Qui, sia chiaro – spiega Lanssana – c’è un maggiore rispetto, la gente prima di sbottare ci pensa su due volte, non cerca mai lo scontro frontale, riflette: un mio zio, che di fatto aveva sostituito la figura paterna, purtroppo aveva un modo tutto suo di fare e, allora, qualsiasi cosa non gli andasse, si scagliava contro la “famiglia adottiva”, io, mamma e mia sorella più piccola di me».
PERSO IL PAPA’, LITIGI CONTINUI CON LO ZIO…
Un contrasto più violento di un altro e il ragazzo col pallino per il calcio, prende la decisione della sua vita. «Lasciare il proprio Paese – osserva – non è mai facile per nessuno, anche quando sopravvivi, fai sacrifici e non hai grandi prospettive: schiantare le tue radici suona come una sconfitta, ma arriva il momento che non riesci più a sorvolare su urla quotidiane, talvolta fatte di punizioni ingiustificate; la vita si complica dal punto di vista psicologico: ci può stare rompersi la schiena di lavoro, ma se a questo aggiungi rimproveri e punizioni varie, quasi un annientamento della tua personalità, cominci a pensare qualcosa del tipo “oggi ho quindici, sedici anni, ma quando ne avrò venti, venticinque, sarò completamente annientato!” ».
E, allora, una decisione non proprio presa a cuor leggero. Lanssane ne parla a mamma. Una, due, tre volte. Una donna non vorrebbe mai staccarsi dal figlio, è maschio e più avanti, una volta diventato uomo, potrebbe darle quel senso di protezione che oggi non ha. «Ma una mamma – mentre racconta, il giovane senegalese cerca comprensione con lo sguardo – al primo posto mette il bene del proprio figliolo piuttosto che il proprio interesse; così mi disse di andare, cercare altre strade che fossero anche appena migliori di una vita fatta di grandi sacrifici e continue vessazioni».
Anche nella fuga ci vuole fortuna. «Prima di puntare l’Italia, provo a non allontanarmi da casa, vado in Mauritania, ma lì la crisi l’avverti forte; allora in Marocco: lavoro, compio mille sforzi, mi invento muratore, operaio, uomo di fatica, ma nei confronti di chi viene da fuori non hanno un atteggiamento sempre corretto: così lavoro e non mi pagano; mi chiedono di pazientare e di lavorare, lavoro e non mi pagano; chiedo i soldi con i quali mangiare e mi cacciano!».
TRUFFATO IN MAROCCO, RAPINATO IN ALGERIA E LIBIA
E’ tempo di cambiare, Lanssane si rimette in cammino. «In Algeria e Libia, mi impegno, faccio lavori, provo a fare quello che alla mia giovane età riesco meglio a fare, lavori di fatica, qualsiasi cosa sia, muratore e mercati; guadagno qualcosa e conosco cosa significhi essere rapinato, una, due volte, i miei sacrifici finiscono nelle mani dei soliti prepotenti: in Algeria e Libia, mi riempiono di botte e svuotano le tasche».
Un raggio di luce. Prega il suo dio, Lanssane, fede musulmana. «Preghiere ascoltate: in Libia preparavano un gommone sul quale mettere quanta più gente possibile, destinazione Italia, centoventi in tutto; mi rivolgo a chi stava organizzando il viaggio, gli dico che non ho soldi e lui, pacca su una spalla, mi spinge e a bordo e mi augura mille fortune».
E’ il 29 agosto di due anni fa, il viaggio dura quattro giorni, l’1 settembre sbarca al porto di Taranto. «Viaggio della paura, mare agitato e, anche qui, il cielo ci assiste: una nave norvegese ci fa salire a bordo, siamo salvi! E’ stata un’emozione più forte dell’arrivo qui, in città, una volta sulla nave era come se avessimo messo piede sulla terraferma, aiutati, rifocillati e consegnati nelle mani del governo italiano, sani e salvi!». Ora, Lanssane, ha ripreso il suo percorso di studi. E svago, come è giusto che sia. «Studio e gioco al pallone, centrocampista nella “Or Infissi”, se non riuscissi a realizzare il mio sogno di calciatore, posso sempre rimediare un lavoro da elettricista, fare i mercati, amo il lavoro, ti rende autonomo e ti dà dignità».