Mdhelal, bengalese, ventotto anni

«Quindici anni vissuti pericolosamente. Un fratello assassinato, una sorella rapita. Fuga dall’ingiustizia e dalla violenza. India, Grecia, Francia, finalmente in Italia. Lavoro per dimenticare, la mia famiglia è mia mamma, rimasta sola in Bangladesh».

Fuga da una scia di sangue, da una legge “fai da te”. In Bangladesh niente è dato per scontato nella lotta quotidiana fra bene e male, fra guardie e ladri. Ne sa qualcosa Mdhelal, bengalese, ventotto anni, fede musulmana. Ha dovuto imparare in fretta questo ragazzo ospite del Centro di accoglienza “Costruiamo Insieme”, che nasconde a malapena grande malinconia. Una famiglia disintegrata: papà morto di malattia, mamma ormai sola, un fratello ammazzato, una sorella rapita. Dulal, due anni più di lui, è il fratello freddato a colpi di pistola. Entrato in un “business” subito poco chiaro, “giustiziato” poco dopo dalla malavita locale. «Quando entri in un maledetto giro – racconta, il volto preoccupato – non hai tempo di accorgertene, questo è successo a mio fratello ammazzato a soli diciassette anni: gli avevano promesso un guadagno facile, senza il minimo impegno sulla linea di confine fra Bangladesh e India; ma la cosa non gli era andata giù fin dal primo momento, purtroppo Dulal senza accorgersene c’era già dentro: troppo tardi anche provare a trovare una soluzione dall’interno, farsi amico questo o quel boss per far comprendere a questi che non era un lavoro per lui e poi, poco per volta, uscirne…».

Missione impossibile. «Non ne esci più, anche il resto della famiglia viene coinvolto, minacciato: chiunque cerchi di convincere chi fa già parte di affari sporchi, paga l’intromissione a caro prezzo; io avevo quindici anni quando mio fratello, appena due anni più di me, fu ammazzato a colpi di pistola; i trafficanti non avevano preso bene il suo rifiuto: lui non voleva saperne di impugnare un’arma, tantomeno di trafficare marijuana, e questo aveva mandato i suoi capi su tutte le furie; lì, dalle mie parti, che sia Bangladesh o che sia India, quando ti acchiappano rischi la vita o il carcere per il resto dei tuoi giorni; insomma: sei dentro e non puoi uscirne, sei dentro e se ti beccano è la fine, non ci sono alternative; quei trafficanti vennero a casa, ci minacciarono, “con le buone” – dissero – picchiandomi di santa ragione, la volta successiva avremmo pianto lacrime di sangue».

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«UNA PISTOLA, QUESTO IL TUO ATTREZZO DA LAVORO»

Dulal, fratello di Mdhelal, non sa darsi pace. Ogni momento della giornata s’interroga, maledice il giorno in cui ha rinunciato al lavoro nei campi, duro sì, ma pulito. Ancora giovane, con un giro di parole era stato attirato nella trappola. «Quando gli misero una pistola fra le mani – riprende Mdhelal – mio fratello capì che aveva firmato la sua condanna a morte: sparare a chiunque a difesa della droga non faceva per lui, che invece aveva un carattere mite; ce lo ripeteva una, dieci, cento volte, provammo a convincere quella gente: volevamo riscattare la vita di Dulal, promettendo di tacere sui traffici e dando all’organizzazione quel poco di denaro che papà aveva guadagnato lavorando in campagna; niente da fare, peggio: la nostra insistenza aveva accelerato l’idea sanguinosa che al boss balenava nella mente fin dal primo giorno; quel ragazzo vispo, ma troppo buono, non faceva per loro e il “problema” andava risolto nell’unico modo che conoscessero: due colpi di pistola alla schiena e fine della storia».

Le notizie arrivano all’improvviso, non conoscono orario. «Fummo svegliati in piena notte, tre, quattro amici di famiglia vennero a darci la brutta notizia: mi fratello era stato freddato; ci recammo di corsa sul posto, ricordo come fosse ieri: tanta gente intorno al fazzoletto di terra all’interno del quale mio fratello era stato ammazzato senza pietà». Anche un atto di coraggio diventa una cosa insignificante. «Avevamo un amico in polizia, ci consigliò di denunciare gli assassini di mio fratello, quei brutti ceffi che ci avevano già minacciati: la denuncia non ci avrebbe restituito mio fratello, ma avrebbe reso giustizia, mandato in galera gli assassini evitando che altri ragazzi facessero la stessa fine del povero Dulal…».

Denuncia inoltrata secondo prassi suggerita dall’amico militare. Sembra di vedere un gangster-movie di Coppola. I cattivi vengono imprigionati, dispongono di denaro per tutti, pagano la cauzione e spostano processi dei quali puntualmente si perdono le carte. «Questo nuovo presidente – dice Mdhelal – non mi convince, sembra quasi sia stato eletto da poteri forti, ma è una mia impressione: gli agenti di polizia e chi amministra la giustizia che perdono i documenti sembra siano una costante di quello che appare più un regime che una democrazia, anche per questo sono andato via».

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UNA TRAGEDIA INFINITA

Ma la storia ha un altro doloroso capitolo. «Gli assassini – ricorda – tornano sul luogo del delitto, un clima di terrore si abbatte sulla nostra casa: una sera, una spedizione punitiva contro la nostra famiglia, spengono i lumi con cui facevamo luce nella nostra piccola casa e lì comincia la mattanza; prendono a botte qualsiasi cosa si muova nella penombra, mia mamma fa da scudo a noi, viene picchiata selvaggiamente, provo a rifugiarmi sotto un letto, vengo agguantato e tirato fuori dai piedi: me le danno di santa ragione, quando tutto finisce e riprendiamo conoscenza, io e mia madre contiamo le numerose ferite, mia sorella Nearon è stata rapita e ancora oggi, a quindici anni da quella storia, non ho più sue notizie…». Infine, l’avvocato senza giri di parole. «Mdhelal, lascia tutto e va’ via, scappa finché sei ancora in tempo!». E il giovane bengalese che tanta fiducia aveva riposto nella giustizia, segue il consiglio. E’ un’altra sconfitta per lui.

Sente spesso la mamma. «E’ terrorizzata – spiega – ma trova ancora il fiato per dirmi di avere cura di me, di non prendere mai decisioni affrettate e di guardare negli occhi la gente che può aiutarmi, farmi del bene, visto che oggi i cattivi li riconoscerei lontano un miglio».

La vita di Mdhelal, oggi. «Lavoro in un caseificio, nonostante la mia giovane età ho viaggiato tanto, imparato lingue: sono fuggito in India, poi andato in Grecia, in Francia, infine tre anni fa l’Italia; qui mi trovo bene, non so se questa è la mia ultima casa, ma il mio datore, i colleghi di lavoro, mi aiutano a non pensare a quanto mi è accaduto, mi sono vicini e questo è un primo passo verso una certa serenità dopo quindici anni vissuti pericolosamente».