Khalid, marocchino, i sacrifici, il lieto fine
«Nel mio Paese stavo male, famiglia numerosa, non mangiavamo tutti i giorni», racconta. Trentatré anni, musulmano, disposto a qualsiasi soluzione. «Partito con un mio amico, la fuga sotto un bus per centinaia di chilometri. Clandestino, dalla Grecia all’Albania, sfuggito a bande, finalmente il vostro Paese, i campi, un lavoro e gli esami di italiano, per chiedere cittadinanza e puntare a un lavoro stabile, fra uno o cinque anni, che importa…»
«Non è stato subito benessere, ho dovuto fare sacrifici enormi, ma alla fine essermi realizzato con un lavoro dignitoso e un contratto di lavoro, per me è stato come coronare un sogno». Khalid, trentatré anni, marocchino di Rabat, fede musulmana, un viaggio tutto da raccontare, con la paura nella testa e in tasca un centinaio di euro raccolti qui e là. Poca roba, ma restare nel suo Paese, il Marocco, non era più consigliabile. «Miei connazionali, in patria, conducono una vita decorosa, sia chiaro, ma altri, tanti altri come me, vivono male, fra molti stenti tanto che “sacrificio” è una parola che non passa mai di moda; lo dicono tutti, i miei concittadini per primi, come se si dessero speranza, e i politici, che fanno il loro mestiere: ogni anno è l’anno buono, quello del riscatto, del primo passo verso il benessere, invece…».
Ma Khaled ha una vita sola, per più di vent’anni ha vissuto fra enormi sacrifici. «Non sapevo nemmeno cosa fosse mangiare una volta al giorno, e non è che mio padre non provasse a lavorare, ma le soddisfazioni economiche erano pochissime;la famiglia numerosa, l’assenza di una figura materna, perché mamma era morta che non avevo nemmeno dieci anni, ci aveva messo di fronte una scelta dolorosa: tentare la fortuna, partire per un Paese che potesse accogliermi, oppure proseguire con una vita avara, sempre più amara…».
Partire per l’Italia, per esempio. «E’ stato sempre il mio primo obiettivo; ogni tanto incontravo connazionali di ritorno dal vostro Paese, gente che lavorava in Italia e tornava per fare visita ai familiari rimasti in Marocco: non so fino a che punto se la passassero bene, ma molti di questi avevano un bell’aspetto, disteso, vestivano bene, avevano l’auto: sembravano americani, avete presente l’ostentare il benessere a tutti i costi?».
AUTO E DANARO, CHE INVIDIA!
America a parte, mostrare che la vita ha riservato una svolta in un altro Paese, è malattia di tutti, non solo dei marocchini “di ritorno”. E’ abitudine insita nell’uomo. «Anche io – confessa Khaled – qualche volta ho avuto questa sensazione, ma volevo pensare in maniera positiva, coltivare quella speranza – che il Cielo mi perdoni – che se ce l’avevano fatta loro, potevo farcela anche io».
Qui comincia l’avventura, diremmo in Italia. «Un centinaio di euro in tasca, la mia unica risorsa: lo so, fa ridere, con cento euro in Italia ti assicuri appena colazione per un mese, così cominciai a consultare un po’ di amici: erano in molti a pensarla come me, ma uno solo di questi, Adil, un coetaneo, assecondò il mio piano, fuggire per l’Italia e giocarci il tutto per tutto, testa o croce, o come si dice qui: “O la va, o la spacca!”».
Non c’era da stare allegri, ma il trentatreenne marocchino, ventotto anni all’epoca, ci provò. «Non è stato facile, il lieto fine era lontano da essere scritto, quello te lo devi creare con fatica e pure in queste cose devi avere una certa dose di fortuna: credo poco a questa, la fortuna, penso che il Cielo abbia già scritto la storia di ognuno di noi, così io e Adil ci facemmo coraggio e partimmo; arrivammo in Grecia, un Paese nel quale certe bande ti picchiano e ti svuotano le tasche, togliendoti denaro e dignità; la polizia fa poco e, in compenso, è molto severa». Come cadere dalla padella alla brace.
«Non stavamo sicuri nemmeno quando trovavamo un buco di casa che insieme ad altri connazionali trovati strada facendo, e altri migranti di altri Paesi, pagavamo con lavoretti saltuari: in campagna o con lavori di muratura e imbianchino; quando qualcuno di noi faceva da guardia all’esterno avvisava che qualcuno si stava avvicinando, malintenzionati, predoni o agenti di polizia, ci davamo alla macchia, raccogliendo quanto potevamo portarci assieme: al ritorno, sul posto, la scena era sempre la stessa: tutto gettato per aria o dato alle fiamme».
VIAGGIO SOTTO UN BUS!
Infine, la decisione. «Dopo un anno vissuto pericolosamente in Grecia da clandestini, io e Adil ci facemmo ancora una volta coraggio e decidemmo di fuggire ancora: non avendo soldi e temendo che ad una biglietteria o una volta su un bus, fossimo segnalati alle autorità locali, pensammo di fare una cosa matta: aggrapparci sotto a un bus e viaggiare in un modo che non mi sento di consigliare; nemmeno oggi che grazie a quel progetto sciagurato ce l’ho fatta; leggerezze che si commettono solo una volta nella vita, aiutati da quel Cielo benedetto».
Cosa dava coraggio a Khaled. «Il fatto che non sapevo dove quel viaggio breve o lungo potesse portarmi: attaccato sotto a quel bus, io e il mio amico viaggiammo per centinaia di chilometri, respirando l’irrespirabile, intossicandoci con il tubo di scappamento e disintossicandoci ogni volta che il mezzo faceva sosta: non potevamo sgranchirci le gambe o fare bisogni, il rischio che ci vedessero e fermassero era troppo alto». Fine del viaggio, Khaled. «Arrivammo in Albania, lì io e Adil trovammo una imbarcazione di fortuna, sbarcammo in Italia. Arrivammo a Napoli, nostri connazionali ci suggerirono di recarci a Foggia, lì cercavano gente che lavorasse nei campi: contratti saltuari, ma denaro vero; io che ero allenato a sacrifici ben più gravi, misi un po’ di soldi da parte».
C’è un lieto fine. «Storia lunga, ma adesso devo fare gli esami di italiano per rinnovare il permesso di soggiorno, lavoro con una certa continuità nei campi, ho grande rispetto per i miei titolari e loro hanno rispetto di me e del mio lavoro: a me e Adil ci hanno preso a benvolere, perché di storiacce e sfruttamenti ne ho sentite anche io… Voglio imparare bene l’italiano, perché il mio prossimo passo è la cittadinanza italiana e un lavoro stabile: fra uno, due, cinque anni, non importa, se c’è da fare ancora qualche sacrificio, non mi tiro indietro, ma voglio restare qua!».