Amadou, senegalese, ventotto anni
«Lavoravo nei mercatini, riuscivo a guadagnare dieci, quindici euro al giorno. Ora è dura anche per gli italiani che spendono i pochi soldi che circolano solo per i generi alimentari». Poi si fa amaro, racconta la vicenda in mare. «Mio fratello inghiottito dal mare, come la nostra imbarcazione, poco prima che una nave mercantile ci traesse in salvo».
«La vera crisi è questo maledetto virus!», esclama Amadou, senegalese, ventotto anni, uno che sembra saperne una più del diavolo. «Solo esperienza, e una vita spesa fra mille stenti, poi completata da una storia bruttissima e, in coda, da un lieto fine, purtroppo solo per me: durante il viaggio per l’Italia, in una imbarcazione piccola e strapiena di gente come me, solo desiderosa di fare una vita che non fosse disumana, c’era anche mio fratello, Issa – ironia della sorte, come dirà più avanti – scomparso fra le onde di un mare agitato e un mezzo piroscafo che imbarcava acqua…».
Prima di farci raccontare la sua storia a tinte fosche, la sua idea sulla crisi. «E’ il virus che l’ha provocata – sostiene, prova un’analisi di pancia, non ha gli strumenti per sostanziare le sue considerazioni, ma ha comunque una sua idea, che ascoltiamo volentieri, hai visto mai… – più di un anno fa, prima che sul mondo si abbattesse questa sciagura, mi riferisco alla pandemia, lavoravamo più o meno tutti: noi senegalesi, per abitudine, educazione se vuoi, siamo abituati a guadagnarci anche un solo tozzo di pane con il lavoro; non troverai mai uno di noi fuori da un bar o un supermercato, un parcheggio a chiedere spiccioli».
PRIMA A GONFIE VELE…
Insomma, provochiamo, prima del virus andava tutto a gonfie vele. «Prima che su tutti si abbattesse questa sciagura, bene o male la giornata la riempivamo di qualche euro: chi vendendo monili e roba di artigianato, chi facendo mercati e mercatini fra Taranto e provincia: io, per esempio, vendevo roba usata, non solo abbigliamento, ma anche oggetti, mobiletti, strumenti di qualsiasi tipo, cose che potevano tornare utili ad altri; io e i miei amici fra i banchi dei mercatini eravamo riusciti a guadagnarci la fiducia della gente che visitava le nostre piccole, ma dignitose esposizioni; c’era chi acquistava, tirava un po’ sul prezzo, poi nel tira e molla, si convinceva e dopo la trattativa eravamo entrambi soddisfatti; altri, invece, a me e ai miei soci portavano oggetti di qualsiasi dimensione anche per il solo piacere di farci un regalo; e anche in questi casi, noi per principio cerchiamo di ricambiare il gesto: intanto per riconoscenza, poi perché magari a una prossima occasione avrebbero potuto portarci dell’altro».
Ottimo rapporto, pare di capire, con gli italiani. «Non penso nemmeno a come possa essere un pessimo rapporto, con un italiano, come con chiunque altro: ho visto cose brutte sulle quali non voglio tornarci, al solo pensiero ci sto male; ne ho viste davvero tante, tanto che quando qualcuno si allontanava dai nostri banchi brontolando o urlandoci cose irripetibili non ci facevamo nemmeno caso».
Ma ne ha viste davvero tante, Amadou. «L’importante era che ci lasciassero fare il nostro lavoro – spiega il ventottenne senegalese – mettere insieme dieci, quindici euro e poter mangiare, pagare il fitto di casa e poter mandare qualche soldo a casa: ora che non stiamo lavorando, quegli euro che avevo da parte o che spedivo ai miei familiari, li spendo solo per mangiare e pagare l’affitto; la crisi, non sembra, ma la paghiamo tutti: la pagano gli italiani, che non dispongono più di grandi risorse; la paghiamo noi, perché gli italiani i soldi li spendono solo per comprare cose da mangiare: il virus ci ha messi al tappeto, tutti nessuno escluso».
QUEL VIAGGIO MALEDETTO
Torniamo al viaggio, al fratello, Issa. «Tre anni più giovane di me – ricorda con grande tristezza, Amadou – ci eravamo imbarcati insieme, eravamo passati fra le mani di civili libici, armati fino ai denti, che spesso incrociavano i militari del posto: non li ho mai visti entrare in conflitto, avevano quasi rispetto gli uni degli altri, penso che alla fine facessero affari insieme. Misi insieme cinquecento dollari, trovai un mio connazionale che si occupava del trasferimento; mio fratello Issa non si staccava un attimo da me, avevamo in mente un sogno di libertà da realizzare insieme; con una barchetta ci accompagnarono ad un piroscafo che ispirava poca fiducia: io e lui, Issa, ci chiedevamo se quella “cosa” potesse portarci dall’altra parte del mondo, posto che fuggivamo dalla povertà e dai maltrattamenti cui eravamo sottoposti dai libici».
Una volta su quella “bagnarola”, mare aperto. «Il viaggio non prometteva niente di buono, non faceva paura se non a chi non sapeva nuotare e, a sua volta, si raccomandava al vicino di barcone nel caso fosse successo quello che tutti scongiuravamo: in mare aperto iniziò ad accadere quello che, invece, avevamo previsto, l’acqua cominciò ad entrare da tutte le parti; i tre dell’imbarcazione ci minacciavano, dovevamo svuotare quel mezzo con qualsiasi cosa ci capitasse a tiro, un secchio, una scodella, e chi non trovava nulla, doveva usare le mani».
«PENSA PER TE…»
Niente da fare, quel mezzo nel quale avevate posto le vostre speranze e ciò che avevate guadagnato, cinquecento dollari, stava per scomparire in mare. «Nello stesso momento avvistammo in lontananza un mercantile, la barca era per metà sommersa d’acqua, nel fuggi-fuggi generale tutti si sbracciavano, urlavano per farsi sentire e si lanciavano in mare, anche chi non sapeva nuotare: io ero ancora sulla barca, cercavo di far risalire a bordo mio fratello, lo tiravo su, nonostante non avessi più forza; ricordo le sue ultime parole “Ce la faccio, stai tranquillo!”: mi disse una bugia, come a dire “Pensa a te, altrimenti finisce che non ce la fa nessuno dei due…”; avevo provato a tirarlo su, ma tutto era risultato vano. Dopo qualche settimana in Italia, mentre fornivo le mie generalità con un sorriso amaro un uomo delle forze dell’ordine mi disse “Amadou, sai che in Italia “issa” lo usiamo quando dobbiamo tirare su qualcosa, qualcuno, a bordo di una imbarcazione?”. Purtroppo, Issa mio fratello, non avevo potuto tirarlo su, trarlo in salvo: mentre salivo a bordo del mercantile che aveva salvato me e un po’ di amici, fissavo quel grande specchio d’acqua; urlavo il nome di mio fratello, ma ormai non c’era più niente da fare: devo costruirmi un futuro anche per lui, che nel momento di maggior pericolo mi aveva urlato di stare tranquillo e pensare a me…».