Samuel, nigeriano, racconta la sua fuga
«Ero in mezzo a un conflitto, dovevo scappare. Costruivo infissi, poi ho fatto l’imbianchino; qui mi sono prima inventato un lavoro, poi ho accettato di lavorare nei campi e in uno stabilimento, con regolare contratto: ma l’estate è finita in fretta…»
«Si è fatto tardi, ho perso il bus, a casa torno a piedi». Samuel non abita in città, anche se Taranto la conosce – parole sue – come le sue tasche. Vive a Massafra, una casetta condivisa con un suo connazionale, nigeriano come lui. Dunque, Taranto-Massafra dopo le 21.00, a piedi. «Non sarai mica matto?», gli diciamo. «Domani mattina sveglia alle cinque, deve passare un bus a prendermi per andare a lavorare nei campi, perdere una giornata di lavoro è un lusso che non posso permettermi!». Ma nemmeno a parlarne, lo accompagniamo noi. Sulle prime rifiuta. «No, tutta quella strada per me, torno a piedi, magari trovo qualcuno che mi dia un passaggio». Gli diamo del “matto” una seconda volta. «Samuel, non suoni come un’offesa, ma sulla strada per Massafra l’illuminazione è scarsa, su questo tratto sono successi incidenti in cui qualcuno ci ha rimesso le “penne” – comprendi “penne”? – e poi, non te la prendere: sei nero, indossi un giubbottino nero, il jeans dello stesso colore, ma quando ti vede un automobilista che transita magari a velocità spedita?».
Il ragionamento deve averlo convinto, se dopo qualche istante, prima sistema meglio sulla punta del naso il suo paio di occhiali stile-intellettuale, poi ringrazia a mani giunte. «Che il Signore ti benedica!», dice. In auto racconta la sua storia. In una mano il cellulare, l’altra gli serve per digitare. Consulta il dizionario di italiano. Da quando è in Italia, per lui è full-immersion. «Sto imparando l’italiano di corsa – spiega Samuel – voglio mostrare subito progressi e far capire alla gente che guarda al mio colore di pelle con sospetto, che non sto qui per farmi assistere, bensì per trovare un lavoro – anche se piccolo, sudato, purché soddisfacente – e rendermi utile al Paese che mi ospita: io già mi sento italiano!».
NIGERIA, MILITARI PERICOLOSI
Allude al trattamento, una volta sbarcato e ospitato in un Centro di accoglienza. «Nel mio Paese, la Nigeria – dice – era in corso un conflitto etnico, esisteva il rischio concreto che potessi rimetterci – come dici tu – le “penne”: una situazione non solo insostenibile, ma pericolosa, non sapevi mai con chi avessi a che fare; ogni giorno cambiava lo scenario, tutto dipendeva dalla politica che in quel momento aveva la meglio e i militari si schieravano ora con i più violenti, ora con i più moderati, così sono fuggito…».
Cosa faceva Samuel nella sua Nigeria. «Paese in via di sviluppo – ricorda – si costruivano case, interi quartieri, c’era bisogno di mano d’opera e io lavoravo in una fabbrica di infissi: porte e finestre erano il mio forte; lo stesso impegno l’ho messo quando sono andato in Libia: dovevo guadagnare soldi necessari per pagare il viaggio, attraversare il Mediterraneo e arrivare in Europa. Anche lì, Paese già in pieno sviluppo, occorrevano braccia per lavorare nelle costruzioni: utile la mia esperienza negli infissi, ma anche nella pitturazione».
Mano al dizionario digitale. Clicca una parola, poi un’altra. Parla di “imbiancare”, “tinteggiare”. «Voglio imparare l’italiano: è molto complicato, c’è sempre una parola migliore dell’altra per far capire cosa intendi, così dopo aver lavorato consulto il dizionario che ho sul cellulare; memorizzo una parola e quando posso digito “translation”…».
In Italia ancora infissi? «Qui ho dovuto imparare altro – anche se non c’era tanto da imparare, se non mettere a disposizione la forza delle braccia – a lavorare nei campi, cosa che faccio con regolare contratto per i due mesi estivi, oppure a sorvegliare uno stabilimento perché di notte non si portassero via ombrelloni e lettini…».
In prossimità di Massafra, Samuel racconta un altro risvolto della sua storia italiana. «Appena arrivato in Italia mi sono recato in Prefettura – spiega – per capire quali passi dovessi fare per trovare lavoro, avere una licenza, un permesso perché non mi facesse sentire un “fuorilegge”; non sapevano come spiegarsi, alla fine un signore che stava all’ingresso, mi disse di seguirlo, mi spiegò che strada fare: mi trovai dritto alla “Caritas”, ma non era al pranzo o alla cena che ambivo, volevo trovare un lavoro vero!».
M’INVENTO UN LAVORO
Alla fine, Samuel? «Me ne sono inventato uno: con il poco denaro che mi era rimasto comprai due secchi e due scope: venti euro; due pettorine, dieci euro, e la stampa della scritta “Servizio Volontario”, altri sette euro».
«Per tre mesi ho scopato marciapiedi, strade, qualsiasi angolo di Taranto: qualcuno si complimentava, altri pensavano stessi lì per conto del Servizio civile, così mi obbligavano a fare le cose per bene, quasi si arrabbiavano…». Ride Samuel, quasi avesse capito di pasta siano fatti alcuni tarantini, pochi per fortuna.
Per quanto il “servizio volontario”? «Tre mesi, non avevo più soldi, così mi sono messo in giro a cercare un lavoro retribuito, qualsiasi cosa fosse. Dunque: Marina di Lizzano, spazzavo la spiaggia con una ruspa e durante la notte sorvegliavo l’intero lido perché qualcuno non rubasse ombrelloni, sdraio e lettini: trenta euro al giorno, la colazione e i complimenti da parte del mio titolare per il mio impegno; mi sentivo importante, ma la stagione è finita in fretta».
Così Samuel si è rimesso sul mercato, ha trovato un lavoro nei campi. Mostra il suo contratto appena firmato. «E’ una grande vittoria, spero duri il più a lungo possibile, per il resto mi sono fatto un po’ di amici, a questi ho detto cosa ho fatto e so fare, adesso aspetto che qualcuno mi chiami: voglio restare in Italia!». Esce dall’auto, mani giunte. «Grazie, il Signore ti benedica». Come se avessimo fatto una traversata a nuoto con lui sulle spalle. Non è un matto da legare, Samuel, è una grande risorsa. Come amico e come lavoratore.