Liberata dopo un anno e mezzo di prigionia

Un bisogno di dare alla sua vita una speranza. Le hanno dato un Corano, lo ha letto, così ha incontrato la fede. Credere è un atto d’amore. «Una creatura misteriosa, che irrompe in maniera imprevedibile, non si può trattare come un delitto», ha detto la scrittrice Dacia Maraini. Intanto, qualcuno ha trovato di che polemizzare.

Silvia Romano, finalmente a casa. Come tutte le cose che accadono dalle nostre parti, anche la storia della ragazza rapita da un commando in un villaggio africano nel quale la giovane cooperante milanese collaborava con la onlus “Africa Milele”, è diventata una vicenda “all’italiana”. Così, politica e social, che non si fanno mancare argomenti di discussione, hanno cominciato a dividersi nel consueto gioco delle parti. Governo italiano orgoglioso per aver riportato Silvia in patria e fra le braccia dei familiari, opposizione – insieme con tutti gli strumenti di cui dispone, fra questi giornali e tv – a indagare sulle modalità che hanno “liberato” la ragazza milanese. Un riscatto di quattro milioni di euro, secondo qualcuno; dieci milioni, invece, per gli zelanti che hanno aggiunto i “costi d’impresa” per riportare in Italia…una italiana.

Ad “aggravare” la posizione di Silvia, un carico da 11: la conversione all’Islam. Insomma, invece di considerare l’abbraccio di genitori che hanno palpitato per un anno e mezzo non sapendo in quali condizioni stesse la loro figliola, a qualcuno è venuto in mente di caricare di significati la scelta religiosa della ragazza. Forse se fosse tornata cristiana, qualcuno avrebbe sorvolato sul riscatto? Chi può dirlo. Patria di grandi geni, qualcos’altro ci saremmo inventati. E allora, la conversione all’Islam della Romano non le viene perdonato, anzi diventa oggetto di dibattito. Starcene un po’ in silenzio, dopo aver applaudito il ritorno a casa di Silvia, e concentrarci sulla ripresa totale dal coronavirus, no eh?

UNA CONVERSIONE SPONTANEA

La conversione è una cosa non riescono a perdonarle. E soprattutto, che Silvia Romano non odi i suoi carcerieri. È una cosa che, addirittura scandalizza, manda i polemici tanto al chilo su tutte le furie. Odiano tutto, probabilmente anche se stessi, come rifletteva in un suo intervento la grande scrittrice Dacia Maraini, ottantatré anni, una che di reclusione se ne intende. Se non altro per essersi opposta insieme con la famiglia alle restrizioni di ogni genere durante il fascismo.

Si indigna per aver sferrato contro la ragazza “un attacco vile”, dice la scrittrice. La insultano e la dileggiano. Sempre i soliti noti, non sopporterebbero che Silvia sia tornata in Italia sorridendo, sotto un vestito che corrisponde al nuovo nome che si è data, Aisha, senza pronunciare nemmeno una parola di rancore verso chi le ha fatto così male. «Avrebbe avuto il diritto di farlo – spiegava giorni fa la Maraini – l’avremmo compresa: nessuno, però, può imporle un risentimento mai espresso come un dovere civile». Il fuoco dell’ultimo affaire italiano – la liberazione della cooperante italiana rapita in Kenya nel 2018 con gli abiti tradizionali della donna occidentale e tornata in Italia domenica scorsa vestita, per sua volontà, come vestono le donne musulmane – ha acceso anche i pensieri della Maraini, la scrittrice italiana più tradotta nel mondo. «È un errore enorme – ha detto in una intervista – trasformare Silvia Romano in un mostro, guardando al suo corpo come se si trattasse del terreno sul quale combattere lo scontro di civiltà.».

Dopo diciotto mesi nelle mani dei fondamentalisti islamici somali di Al-Shabaab, la storia di Silvia Romano si è conclusa senza un lieto fine che molti bacchettoni avrebbero invece voluto. La ragazza si è convertita all’Islam. Senza costrizioni, ha detto ai magistrati che la interrogavano. Mentre ad attenderla, da una parte c’erano i felici e i contenti, e dall’altra gli eterni indecisi, cioè né felici, né contenti. Dacia Maraini, argomenta il suo punto di vista. «Chi attacca Silvia per il vestito che indossa – dice la scrittrice – giudicandola per la scelta religiosa che ha fatto, è privo di immaginazione; non riesce nemmeno a sospettare cosa significhi stare nelle mani di criminali che ti considerano un oggetto che si dà in cambio di denaro; chi ha attaccato Silvia dimostra di essere incapace di mettersi nei suoi panni; non arriva a comprendere come la fede, sebbene islamica, abbia potuto essere uno strumento al quale la ragazza si è disperatamente aggrappata per uscirne viva, per trovare la forza di andare avanti».

ANCHE CONTRO LA SCRITTRICE

Qualcuno, sulle prime, aveva sollevato polemiche anche nei confronti della Maraini, schieratasi in difesa di Silvia, comunque del suo caso, una ragazza comunque tenuta ostaggio per un anno e mezzo. «Cosa può saperne lei?», aveva chiesto qualcuno senza conoscere la storia della scrittrice italiana. «Sono stata prigioniera anche io – la sua pronta risposta – per due anni, in un campo di concentramento giapponese: avevo sette anni quando cominciò; mio padre era un antropologo, stava studiando le popolazione del nord del Giappone, quando ad un certo punto, in nome di un patto internazionale, chiesero a tutti gli italiani che erano in Giappone di giurare fedeltà alla Repubblica di Salò: mio padre e mia madre, che erano entrambi antifascisti, si rifiutarono. Così ci rinchiusero».

L’Islam è una religione universale, non è un’ideologia politica razzista. Durante la prigionia, la scrittrice si era nutrita di favole. Chiedeva in continuazione ai suoi genitori di raccontargliele. Lei stessa le inventava. Era un bisogno spirituale. Avere delle storie con le quali uscire fuori da quel posto orrendo. Immagina la scrittrice, perché l’immaginazione è il suo mestiere in quanto scrittrice, che nella mente di Silvia Romano sia scattato qualcosa del genere.

«Un bisogno interiore – il suo punto di vista – di dare alla propria vita un respiro, sentire la forza di un vento capace di farla volare via di lì; fuggire dai propri aguzzini: le hanno dato un Corano, lo ha letto; dice che in quelle parole Silvia ha incontrato la fede: chi siamo noi per condannarla? Credere è un atto d’amore e l’amore è una creatura misteriosa, che irrompe in maniera imprevedibile, non si può trattare come una colpa».