Antoine, guineano, preso a sassate da africani
«L’avversione al colore della pelle è difficile da guarire. Mio padre vittima di un sortilegio. Questione di terreni, una faida familiare, alla fine sono andato via…»
Antoine, mille motivi per sorridere, uno per rifarsi serio. Aggrottare la fronte, lasciarsi andare a malinconia, commozione. Perfino risentimento, parlando della sua Africa. «Amore e odio, ho lasciato il mio Paese, la Guinea, mia madre e i miei fratelli – che però sento spesso – a causa di una guerra familiare per un terreno agricolo: morto mio padre i litigi dalle parole sono passati ai fatti, non c’era giorno che non ci picchiassimo, ce le dessimo di santa ragione: tornare a casa e medicarsi dalle ferite era una cosa sola; non ho atteso che passassimo alle armi, perché da noi funziona così: tu mi insulti, io ti picchio; io ti picchio, tu mi accoltelli, io ti sparo. E un brutto giorno sono andato via…».
Non c’è via di uscita, Antoine. «L’unica – confessa con aria di chi avverte una sconfitta – è quella di andare via; non mi piace dire “fuggire” o “scappare”: solo chi non ha coraggio se la dà a gambe e io avevo messo in preventivo che potesse finire così per me, anche se prima avrei trascinato con me qualcuno dei parenti più accesi!». Storiaccia senza fine.
Proviamo a parlare di altro. «Questo passaggio è importante, prima dell’arrivo in Italia: nel mio Paese, purtroppo, ho lasciato i miei libri, ho dovuto interrompere gli studi, io che ero così appassionato della lettura e del conoscere, tanto che un giorno vorrei cominciare a girare il mondo senza fermarmi, come “Forrest Gump”, hai presente il film?».
RISPETTO E AMORE PER LA VITA
Dunque, l’Italia. «Qui, una volta nel Centro di accoglienza di “Costruiamo Insieme” – racconta Antoine, accanto un operatore che fa da interprete per i momenti salienti del racconto – ho ripreso a studiare, a imparare l’italiano, a scriverlo, ma soprattutto a dare peso, profondità a due parole che ora per me sono fondamentali nella mia maturazione: tolleranza e rispetto; mai rispondere con lo stesso tono, la stessa violenza di chi ti provoca, questo modo di fare – forse – andava bene nel mio Paese, quando invece di riflettere sulle offese rispondevo colpo su colpo: a un pugno provavo ad assestarne due… Qui sto imparando il rispetto: se non lo eserciti per primo, non puoi riceverlo; e poi, la vita: è il dono più importante che il Cielo possa averci dato, non puoi rinunciare a questo con la sciocca idea di dimostrare che sei il più forte; studio e uso internet, leggo, guardo video e osservo le cose del Creato, mi dico che sarebbe stupido chiudere gli occhi per sempre senza aver visto tutto questo e senza aver visto, magari, il sorriso di una persona che ti ringrazia per averle fatto una cortesia: da quando sono in Italia, e lo devo ai miei compagni, gli operatori, la gente che nel frattempo ho conosciuto, la mia prospettiva rispetto alla vita è cambiata profondamente».
Antoine, terrorizzato, però coltiva ancora una sua teoria. Su questa dovrà lavorare ancora. E’ sulla buona strada, ma lo studio lo aiuterà a superare certi ostacoli mentali. «Mio padre è stato ucciso da sortilegi che gli hanno scatenato contro i miei familiari; stava bene, non aveva mai accusato dolori, quando un giorno ha cominciato a sentirsi sempre più debole fino a quando non è spirato nel suo letto: ho sentito con queste orecchie le maledizioni che gli indirizzavano zii e cugini; gli avevano augurato di fare una brutta fine fra dolori lancinanti, così è stato».
IL DOLORE DELLE PAROLE
Qualcuno ha provato a dirgli che le parole non fanno male, le porta via il vento. Ha una sua teoria, per certi versi – ma solo certi versi – condivisibile: «Le parole fanno più male di un pugno, di una legnata, una sassata». Quando prosegue, non lo seguiamo più: «Non appena qualcuno mi diceva qualcosa di grave – insite ora Antoine – offensivo, cominciavo ad avvertire dolori, stavo male: più gravi sono le cose che ti indirizzano, più forte è il dolore».
Un pugno, una legnata, una sassata. «Le sassate, brutta cosa, poi diciamo che in Europa esistono razzisti! Perché, in Africa no?». Si spiega, Antoine. «Il mio viaggio dalla Guinea all’Italia è durato circa due anni, sono passato attraverso Algeria e Libia: dovevo lavorare e mettere da parte quei soldi utili per pagarmi la traversata del Mediterraneo, ma devo dire che proprio nella mia Africa sono stato preso a sassate insieme a miei connazionali; il colore della pelle ci rende facili bersagli e, allora, “Dagli al nero!”: qualcuno è stato colpito, qualche altro ferito gravemente; mentre cercavamo di metterci al riparo, schivare agguati vigliacchi, vedevo cadere davanti ai miei occhi compagni di viaggio, che dolore!».
Per fortuna, l’Africa, in generale, è un’altra cosa. «E’ vero – conclude Antoine – siamo ospitali; io stesso sono stato ospite di una famiglia algerina: “Resta con noi – il loro invito – un boccone in meno a ciascuno di noi non ci farà morire di fame: ci ripagherai quando e se lo vorrai”; non avevo messo molto da parte, ma prima di imbarcarmi divisi con loro quel poco che avevo, come avevano fatto loro con il cibo, una cosa che non dimentico: vere le sassate, ma in Africa c’è gente con un cuore grande così!».