Habib, pakistano, ventotto anni
«Papà era medico, un giorno fu sequestrato da un gruppo di talebani: voleva che i piccoli studiassero e non si facessero saltare per aria. Faccio il mediatore, ma sogno una laurea in Medicina. Mio fratello è in Italia, ma l’ho visto una volta sola, con mamma mi sento spesso, ma ci raccontiamo piccole bugie a fin di bene…»
«Vengo dal Pakistan, mi dicono che in qualche modo la fuga dal mio Paese me la sono cercata: evidentemente non ho saputo farmi i fatti miei, che poi era combattere l’ingiustizia e difendere la libertà di pensiero, mia e dei miei connazionali…». Non è semplice la storia di Habib, pakistano di ventinove anni, da otto in Italia. Ha una moschea e un imam di riferimento. La sua religione è l’Islam, ma anche questa non volendo gli ha provocato qualche problema. «Non dal mio imam, né tantomeno dai miei fratelli con cui pregavo, mi è stato dato dell’infedele: l’accusa è scaturita da un gruppo di talebani, quanti seguono fanno dell’annientamento religioso altrui il loro credo e non ammettono repliche».
E’ stato perseguitato Habib. «Ovunque andassi mi facevano terra bruciata intorno, e non solo terra, questi hanno dato fuoco anche ad un circolo dove incontravo ragazzi, si parlava del più e del meno e ci si scambiava punti di vista, non solo religiosi: anzi, la religione era l’ultima cosa, nel senso che pregavamo quando c’era da pregare e il resto del tempo parlavamo di studi, dell’importanza di imparare una, due lingue che ci sarebbero tornate utili per conoscere meglio gli altri e, perché no, se un giorno avessimo avuto occasione di crearci un futuro, nel nostro Paese oppure all’estero, considerando che avevamo messo in preventivo che poteva accadere di essere perseguitati solo a causa di un punto di vista diverso…».
ONESTAMENTE, HABIB…
E’ onesto Habib. «Ammetto di avere sbagliato – confessa – di aver sfidato i mulini al vento, come scriveva Cervantes nel suo Don Chisciotte: contro una moltitudine guidata da un religioso squilibrato, non puoi farcela, basta che questo urli “Dagli all’infedele!”, tutti ti si rivoltano contro: e una volta questo è accaduto davvero, sono stato picchiato; tornato a casa, gente letteralmente invasata ha dato fuoco a quel piccolo appartamento che condividevo con mio fratello, anche lui picchiato e messo in fuga: la mia vita da quel giorno è letteralmente cambiata».
Voleva studiare Habib, che cita Cervantes, Shakespeare, Dante, Neruda ed altri autori occidentali. «Studiare, aprire la propria mente – spiega – aiuta a capire altre civiltà, a relazionarsi con gli altri, a comprendere se tutto quello che hai fatto fino a quel momento è giusto o sbagliato: capisci che la verità può stare a metà strada, tutto sta nell’avere il coraggio di riflettere, parlare alla propria coscienza e cercare di ragionare come ho provato a fare io in questi anni…».
Orfano di padre, Habib aveva deciso di fare lo stesso percorso di papà Dalir, medico stimato. «Brutta storia la sua – ricorda il ventinovenne pakistano – un po’ come la mia, solo che la sua è finita nel dramma più completo e io, ad oggi, ho scritto in coda alla mia di storia un lieto fine; i talebani lo minacciarono prima a parole – volevano che si mettesse al loro servizio, che lavorasse solo per loro e non per quanti ritenessero “infedeli” – poi con i fatti: lo picchiarono selvaggiamente, fino a quando un giorno papà non tornò più a casa; cosa possa essergli accaduto posso solo pensarlo, non ci hanno restituito il suo corpo; io ero troppo piccolo per ricordarmi questa storia per filo e per segno, ma me lo raccontò un giorno mia madre quando trovai una pila di libri di papà alta così; cominciai a leggerne uno, poi un altro e un altro ancora; non era semplice capirne il contenuto, specie per me che ero un ragazzino: mi sembrava di recuperare quel rapporto con mio padre leggendo i suoi libri: Tolstoi, Proust, Borges, Pessoa… Mi si aprì un mondo intero, tanto che anche io volevo fare il medico, ma poi capii che era meglio sorvolare e provare a volare basso, non erano tempi maturi per alzare la testa».
PERSEGUITATO, LA FUGA
Poi, il momento giusto, lo decidono gli altri. «Fuggo, perseguitato, viaggio nella pancia di uno, due, tre tir per arrivare finalmente in un Paese straniero: arrivo in Italia, mi riconoscono lo status di rifugiato, perfeziono il mio italiano, l’inglese e il francese; oggi non solo scrivo arabo, ma anche in tutte le lingue che conosco: faccio il mediatore linguistico-culturale in una città del Nord, in Puglia torno spesso per incontrare i miei vecchi amici conosciuti nel campo profughi; qui ho lavorato grazie all’interessamento di due avvocati che si interessavano di migranti, poi l’occasione di lavorare, mettere a frutto quello che avevo imparato con l’idea fissa di continuare a studiare: voglio diventare un medico, ci sono miei connazionali, fratelli arabi, che hanno bisogno di cure e di essere seguiti».
Fratello, Ismail, e mamma, Jala. «Mamma la sento spesso – conclude – dopo la tragica scomparsa di papà, ha cresciuto me e mio fratello, ci ha dato quell’istruzione necessaria per poi costruirci la nostra strada: il distacco da lei è quello che si dice un brutto momento; le telefonate non si contano, qualche volta per alleggerire il distacco, la nostalgia, il desiderio di un abbraccio; ci raccontiamo qualche piccola bugia a fin di bene; con lo stesso Ismail, anche lui da otto anni in Italia, ci sentiamo spesso, ci promettiamo di vederci, ma ci siamo visti una volta sola».
Ma per mamma e fratello Habib ha un posto caldo nel cuore. Lo stesso posto occupato da papà Dalir, che gli ha lasciato in eredità un sogno, fare il medico, e un insegnamento, essere utile al prossimo. «Ho trovato dei suoi scritti, aveva bene in mente cosa intendesse per libertà: consigliava ai più deboli di non uccidere perché i Paesi stranieri ne traessero vantaggio e, soprattutto, di mandare i propri figli a scuola, a studiare invece di farsi saltare con una carica di dinamite per andare in paradiso…».