Ike, 50 anni, somalo, rifugiato in Italia a causa della guerra
«Avevo vent’anni, vidi morire mio fratello sotto i colpi di un fucile. Non è stato facile i primi tempi, ma alla prima occasione ho mostrato il mio impegno. Oggi ho una moglie, due figli, l’affetto dei miei suoceri, la stima degli insegnanti dei miei ragazzi. Racconto spesso la mia storia, perché possa far riflettere su quanto sia idiota l’uso delle armi. Con il tempo, la nostalgia del mio Paese è passata»
Ha cinquant’anni, Ike, nato a Berbera, Nordovest della Somalia. Una storia tutta da raccontare, meglio, da ascoltare. Fuggito circa trent’anni fa dal suo Paese, in seguito allo scoppio della guerra civile, è arrivato in Italia a soli venti anni. Qui, in provincia, aveva un amico, l’unico, che lo ha subito ospitato. Oggi Ike si esprime in un italiano perfetto. «Non sono stati momenti facili – spiega – intanto perché non sapevo cosa mi aspettasse in Italia, per me un mondo lontano: col senno di poi, dico che era qualcosa di diverso da quanto immaginassi; e non perché lo avessi idealizzato, ma perché nel mio Paese, allora, arrivavano notizie il più delle volte controverse: si stava benissimo, si stava malissimo, si stava così così…».
Un viaggio, l’arrivo in Italia. «Primi sacrifici, se non hai un lavoro la cosa si complica, così il mio amico ha cominciato a darmi una mano: provavo a rispondere agli annunci di ricerca personale, ma non appena incontravo quello che avrebbe dovuto essere il mio datore di lavoro, mi licenziava dal colloquio con un “Grazie, le faremo sapere”: nessuna telefonata successiva».
Poi, per Ike, si fa spazio la prima speranza. «Una ditta per le pulizie, cercava personale: il mio amico insisteva, diceva che intanto poteva essere una soluzione temporanea, ma che era importante entrare nel mondo del lavoro per poi trovare sistemazioni più durature: oggi faccio ancora questo lavoro; quello che doveva essere un impegno trimestrale, una sostituzione estiva, si è rivelata l’occasione della mia vita».
NESSUNA NOSTALGIA, ORMAI
Il suo amico gli aveva detto che gli italiani questo mestiere non volevano farlo e, allora, per lui poteva aprirsi una strada. «Oggi posso dire che la sua – sorride ripensando a quelle parole, Ike – era una previsione completamente sbagliata; intanto non era vero che gli italiani non volessero fare gli addetti alle pulizie: è un lavoro come un altro, di grande decoro, poi, per dirla tutta – puntualizza il cinquantenne somalo – allora, come oggi, la maggior parte dei miei colleghi è italiana: dunque, mi chiedo – capovolge il concetto, sorride – vuoi vedere che questo lavoro non vogliono farlo i neri come me?».
Ama il paradosso, Ike, che nel frattempo, studiando e “sfogliando” internet, sa che il suo nome è lo stesso di un grande artista della canzone. «Me lo hanno fatto notare i miei colleghi di lavoro: Ike Turner – non si fa cogliere impreparato – ex marito della grande Tina Turner; ho letto la sua storia, con tutto il rispetto lui non doveva essere una gran bella persona visto che picchiava la moglie; lei, invece, una voce straordinaria, è una grande star, ma la musica non la seguo molto».
Ci racconta la sua Italia, la sua famiglia. «Non ho la nostalgia che mi assaliva trent’anni fa, quando lasciai il mio Paese; alle mie spalle anche una tragedia: mio fratello raggiunto dal colpo di fucile di un cecchino, durante la guerra civile; un mese dopo partii, la decisione era maturata da tempo, quella brutta storia aveva solo accelerato la partenza. Ho un altro fratello qui in Italia, anche un cugino che, però, dopo qualche tempo si è trasferito in Francia. Ci teniamo in stretto contatto promettendoci di riabbracciarci: il mese, l’anno dopo è sempre quello giusto, ma non ci vediamo praticamente da una vita, se non fosse per le videochiamate con whatsapp; con il dilagare della pandemia, la paura del Covid, non ne parliamo più, l’importante è uscire da questa crisi. Siamo tutti imbottigliati fra zone gialle e zone rosse».
UN BUON LAVORO
Ike, con grande impegno, in Italia ha costruito il suo futuro. «Ho un buon posto di lavoro – conferma – ho grande rispetto da parte di tutti i colleghi; trent’anni fa quando camminavo per strada, entravo in un bar per chiedere solo un bicchiere d’acqua, mi guardavano con sospetto, quasi fossi un alieno: ma, attenzione, mai una parola fuori posto; mi osservavano, questo sì, ma a nessuno veniva in mente di fare anche una modesta battuta».
Futuro significa anche famiglia. «Sì, qui ho trovato l’amore, durante una Festa dell’Unità: mia moglie è italiana, fa la cassiera in un supermercato; bene o male i nostri orari coincidono, stiamo molto tempo insieme: abbiamo due figli, vanno a scuola e sono il nostro motivo di orgoglio; quando i ragazzi frequentavano la scuola media e i primi anni delle scuole superiori, i loro professori mi invitavano a raccontare la mia personale esperienza: come il sottoscritto, anche loro non hanno mai avuto problemi di relazioni con i compagni di scuola, né con gli insegnanti…».
E, a dirla tutta, anche lui con quelli che sono diventati i suoi futuri suoceri. «Vero, persone squisite, aperte mentalmente: vedere una figlia felice è il principale obiettivo per un genitore; penso di averle dato serenità, felicità, un sentimento che avverto forte sulla mia pelle: mi sento l’uomo più felice del mondo. E se penso da dove sono partito e cosa mi ha spinto a venire in Italia, il mio cuore si riempie di tristezza. Ma, ora, posso dire che la Somalia è il Paese che mi ha dato la vita, ma il mio futuro è qui, l’Italia mi ha restituito il sorriso».