Godfred, ghanese, calciatore
«Sono arrivato a Lampedusa. Mio padre si è ucciso di lavoro. Poi un provino in una squadra, mi ha cambiato la vita. Sogno di tornare a casa, comprare piantagioni di cacao. E far lavorare e stare bene tanta, ma tanta gente»
E raccontiamole un po’ di storie a lieto fine. Storie che sanno tanto di film di Frank Capra, sullo stile de “La vita è meravigliosa”. Il protagonista è un giovane calciatore. Non menzioniamo il cognome, né la squadra di appartenenza. La sua è una storia che deve interessare per come si è evoluta, con quell’esultanza da stadio che ha reso felice lui e la sua famiglia. Tutto scaturisce da una domanda, semplice. «Ma quando entri in contrasto con un tuo avversario, perché ci metti tanta foga, come se fossi arrabbiato con il mondo intero?». Un collega a Godfred, ventiquattro anni, ghanese, religione cristiana, tanto che spesso all’ingresso in campo con i suoi compagni di squadra, rivolge lo sguardo al cielo, gli indici rivolti, dice, al Signore, perché protegga lui e la sua famiglia, non necessariamente in quest’ordine. «Non sono arrabbiato con il mondo – Godfred al giornalista, in un italiano sempre migliore – anzi, credo di dovergli essere riconoscente: il calcio è fatto di classe, ma anche di passione, così il mio allenatore che in quanto a passione può insegnarne a tutti noi e cominciare daccapo, mi ha detto che non bisogna mai entrare svogliati in campo: facciamo il mestiere più bello al mondo e ci pagano tanto, dunque massima concentrazione e all’avversario provare a togliere il pallino del gioco anche con grinta».
La sua storia, praticamente un film. Uno di quelli che iniziano nella miseria e prima dei titoli di coda si concludono con un lieto fine. «Sono arrivato in Italia a Lampedusa – racconta – più di una decina di anni fa, non viaggiavo da solo, ero con papà, William, che non mi perdeva d’occhio nemmeno un istante; quando partimmo da Sunyani, sapevamo che non sarebbe stato facile farsi strada, crearsi un futuro in un Paese nel quale cento euro avevano un valore simile a zero, mentre a casa mia, avrebbero potuto rappresentare un anticipo per aprire una impresa modesta, ma qualcosa che avrebbe potuto farci stare bene».
PAPA’, QUANTI SACRIFICI
Papà e i sacrifici. «Lui ha fatto parte di quella schiera di extracomunitari che per vivere dovevano spezzarsi la schiena nelle piantagioni di pomodori: ha lavorato nelle campagne di Foggia, prima, in una, due, tre campagne in Campania, poi; dura la vita, così credo che giocare al calcio, allenarsi, andare negli alberghi di lusso, sia una cosa da difendere con le unghie e con i denti; se noi africani ci mettiamo più grinta è perché non vogliamo trovarci nelle condizioni di una volta…».
Alberghi di lusso, Godfred. «Se penso a dove dormivo quando ero piccolo – sorride – mi viene il capogiro, ecco perché i contrasti, come spiega il mister, devono essere leali sì, ma anche convinti; negli alberghi mi viene da mettere tutto a posto, come se fosse casa mia, ho rispetto per chi lavora, rassetta e dispone le stanze per altri clienti. Ma quanti sacrifici a casa…».
Poi il colpo di fortuna. «Certo, senza quello e senza un bagaglio tecnico non vai da nessuna parte; sono stato osservato, ho giocato bene le mie carte, fino a quando sono finito in un club di serie A: avevo realizzato il mio sogno, fare una cosa che avevo sempre desiderato quando giocavo nei campi della mia cittadina, e guadagnare tanti soldi con i quali aiutare la mia famiglia, che vive in Ghana, per aprire un commercio e far studiare le mie tre sorelline: attente, però, ho detto loro, studiate davvero, non sta bene che un uomo vi mantenga; devono studiare, farsi strada e un giorno diventare autonome: certo, le aiuterò, ma anche loro devono sapere che la vita è fatta di sacrifici, non è una lotteria…».
Godfred, non una ma più volte, ha pensato alla sua vita, a come sarebbe stata se con il papà non si fosse imbarcato per l’Italia. «Avrei lavorato in una piantagione di cacao – la risposta secca, senza pensarci troppo – dalle mie parti è quello il lavoro che fanno in molti, io avrei seguito la stessa strada; oggi che gioco al calcio e guadagno, sto pensando a un mio ritorno a casa, a fine carriera: comprerò piantagioni di cacao e darò lavoro a tanta gente».
LA TV DAI VICINI, IN CAMICIA
Cosa ricorda dei suoi quindici anni, Godfred. «Tante cose, provo a dirne una: non avevamo la tv, così mi toccava chiedere ad amici benestanti se fosse stato possibile vederla a casa loro; unica condizione, tirarmi a lucido e indossare una camicia, perché a casa della gente – giusto così – non si doveva entrare impolverati, con una maglietta magari sudata e con le scarpe sporche!».
Un pensiero rivolto a mamma, Confort. «Se papà mi ha insegnato l’importanza del lavoro – spiega Godfred – mamma mi ha fatto capire cosa sia il rispetto: prima di pretenderlo per se stessi bisogna averlo per il prossimo; e poi il valore delle cose, del denaro, mai sperperarlo, specie ora che, grazie al Signore, i soldi cominciano a circolare anche in casa nostra: non dobbiamo dimenticare un solo istante da dove veniamo e che il benessere è un dono che se non sai amministrarlo con giudizio e amore, così come è arrivato puoi perderlo…».
Gli è balenato, ma per poco, invitare in Italia i familiari, mamma, papà e le tre sorelline. «Con il mio aiuto stanno lavorando e studiando, venissero in Italia sarebbe complicato: non c’è molto lavoro e, allora, se posso, aiuto la mia famiglia da qui; mando loro dei soldi che permettano loro di guardare con serenità al futuro, poi ho in mente di realizzare il mio secondo sogno: dopo aver fatto il calciatore, come dicevo, mi piacerebbe comprare piantagioni di cacao e far lavorare tanta, ma tanta gente e far stare bene decine di famiglie: mi è bastato vedere papà negli occhi, pieno di sudore e distrutto da un lavoro massacrante, per capire la vita, non dobbiamo dimenticare da dove veniamo…».