Ogni giorno una mortificazione
Tre storie, tre ragazzi, che hanno anche vergogna di avere accettato pochi spiccioli. Lavano le scale, servono ai tavoli, stanno in cucina. E le mance? Spariscono anche…
Generazione cinque euro. Al solo pensarci, viene il sangue ai polsi. E bene fa qualche quotiodiano autorevole a riportare alcuni casi che sfiorano l’incredibile. C’è la Gazzetta del Mezzogiorno, per esempio, che riporta i casi di tre ragazzi che, alla fine, preso un po’ di coraggio, vuotano il sacco.
Altro Incorvaia e Rimassa, ispiratori del film “Generazione mille euro” diretto da Massimo Venier, il regista preferito da Aldo Giovanni e Giacomo e dalla Gialappa’s. Purtroppo, in questo caso, c’è poco da ridere. Poche le occasioni di lavoro che offre Taranto, specie ai giovani. Se questi non proseguono negli studi, avendo alle spalle famiglie con possibilità economiche per affrontare corsi universitari, nella propria città non hanno un grande futuro.
Poco incoraggianti i dati sui nostri giovani, dalla nostra provincia al resto del Sud. Le ultime stime Istat a livello provinciale fornite da Confcommercio Taranto, confermano: il tasso di occupazione giovanile fino ai 24 anni è del 9,5% (in Italia 16,8%); quello di disoccupazione, sempre fino ai 24 anni è, invece, del 39,4% (in Italia del 29,4%). Secondo Svimez, negli ultimi quindici anni sarebbe scomparsa dal Sud una città grande come Napoli, mentre una analisi dell’Ufficio Studi su Economia ed occupazione al Sud, certificherebbe che il Pil pro-capite resta sempre la metà di quello delle regioni del Nord. E, per finire, sarebbero mediamente centocinquantamila gli studenti, molti pendolari, che ogni anno per scelta emigrano dal Sud al Nord (30% del totale).
VERGOGNA E NOMI DI FANTASIA
Generazione cinque euro, si diceva. Entriamo in partita. Nomi di fantasia, ma storie purtroppo vere, una dietro l’altra. I ragazzi, ancora sul mercato a condizioni “meno svantaggiose”, chiedono il minimo sindacale: la privacy. Orari da non crederci: lavoro da cameriera in un ristorante, dalle sette del mattino all’una dopo la mezzanotte; su e giù per le scale, dalle sei a mezzogiorno. Non proprio una passeggiata di salute. Per cinque euro o, in alternativa, un pacchetto di sigarette. Di solito, il motivatore senza scrupoli: «Meglio che startene a casa, senza far niente!». Sfruttatori con un coraggio da dieci e lode, forse perché quei ragazzi che stanno “senza far niente” non sono i loro figlioli.
Dunque, cinque euro. Compenso giornaliero di ciascuno dei tre ragazzi che ci racconta la sua storia di lavoro sottopagato. Assicurazione, nemmeno a parlarne. In caso di controllo, la giustificazione: «E’ in prova, oggi è la sua prima volta!» (e forse anche l’ultima…). Chi lava le scale, chi fa la cameriera in un ristorante; chi, infine, è impegnato in una attività di gastronomia.
Da perderci il sonno, ma anche chili. «Venti in due anni!», dice Valentina, collaboratrice in un esercizio che prepara primi e secondi da asporto. «Non dormivo la notte, per gli orari e il trattamento cui ero sottoposta; poi, le umiliazioni quotidiane, nelle parole e nei gesti: insistevo però, volevo dimostrare ai miei genitori che il lavoro non mi nauseava, che pur di sentirne il sapore amaro, avrei accettato qualsiasi trattamento». E gli amici. «Bravi a dirmi di abbandonare, perché non si può accettare qualcosa di simile: “Ma come fai?”, mi dicevano. Non c’erano e non ci sono alternative, dunque bere o affogare».
DALLE CINQUE DEL MATTINO
«A casa, senza un piano B, se non il primo ciclo di studi portato a compimento; poi, proseguire, avendo le risorse economiche, o trovare un’alternativa», confessa Aldo, impegnato per mesi in un’attività che si occupava della pulizia di condomìni sparsi in città. «In giro c’era poco o niente, allora, accettai la proposta di quella ditta di pulizie: non dovevo pagare lo scotto del noviziato; cosa vuoi che sia – mi dicevo – tenere una scopa fra le mani, mescolare detersivo e acqua in un secchio, spezzarsi la schiena a strigliare gradini e pianerottoli, talvolta in stabili senza ascensore: una vitaccia; il tutto, sei giorni a settimana, dal lunedì al sabato, alla modica cifra di duecentocinquanta mensili; quei soldi, tutti insieme in biglietti di taglio medio, per far sembrare lo “stipendio” una cifra onorevole: chi mi consegnava quella misera somma di solito aveva l’espressione di chi in quel momento ti stava quasi arricchendo».
E al ristorante, niente orari. «Patti chiari, diceva il ristoratore: qui si sa quando si entra, non si sa quando si esce…». Bel coraggio anche questo tipo. «Ma andava così», spiega Antonella, con tanto di magone. Avrebbe voluto ribaltare i tavoli, far volare le posate, in quei momenti mandare al diavolo il datore (parolone!). «Ho resistito due anni – spiega – dalle sette del mattino a dopo la mezzanotte, quando andava bene, altrimenti si chiudeva anche più tardi».
Le mance. «Altra storia: un giorno seguii un tavolo con una cinquantina di persone, lascio immaginare il lavoro, l’andirivieni dalla cucina; piatti diversi fra loro, ma farli arrivare nei tempi e nei modi giusti per evitare lamentele; fine serata: i presenti lasciano sul tavolo un euro a testa, cinquanta euro complessivi di mancia; arriva il titolare, li raccoglie, li prende, diciamo così, in custodia: “Poi li metto insieme con le altre mance, nel salvadanaio del personale”; mai rivisti quei soldi, né io, tantomeno i miei colleghi».
E PROVANO ANCHE IMBARAZZO…
Valentina non fa più parte della “Generazione cinque euro”, ma racconta altro ancora. «Provo un certo imbarazzo – dice – se penso alla vigilia e alle festività, quando il titolare faceva una sorta di appello: “Chi non ha impegni con le famiglie, può venire qui, a lavoro, il giorno di festa lo trascorriamo insieme!”; come se l’ambiente di lavoro fosse una seconda famiglia, sarebbe autorizzato a pensare qualcuno, invece niente di tutto questo; compravo un tramezzino e una bottiglietta d’acqua in una di quelle macchinette che fanno servizio ventiquattr’ore al giorno, con il titolare che recitava quasi la parte dell’offeso per quella mia scelta; un giorno, bontà sua, mi disse di prendermi qualcosa da mangiare fra quanto rimasto in cucina, quasi mi rimbrottò a causa della sola melanzana scelta: “La conosci la roba buona!”. Volevo sprofondare, lo avessero saputo i miei genitori… Ecco, i miei venti chili persi appartengono a quel periodo: se lo raccontassi in giro, tranne i “miei”, nessuno mi crederebbe».
«Un collega ci accompagnava con un furgoncino da un condominio all’altro», ricorda invece Aldo. «Con il dovuto rispetto per chi fa il mestiere più antico del mondo, mi sembrava di essere una prostituta: il conducente sostava nel furgoncino, fumava una, due sigarette e, alla fine, si assicurava che avessimo fatto bene il nostro lavoro: così, tutte le mattine, sei giorni a settimana, dal lunedì al sabato, fino a quando non ce l’ho fatta più e me ne sono andato». Anche la “liquidazione” da romanzo. Il titolare dell’impresa di pulizie: «Mi dispiace, ma sai quanti ne trovo che stanno a casa senza far nulla e che aspettano solo una chiamata?». «Cosa rispondi a uno che ti dice così – la reazione composta del ragazzo – e non ha nemmeno la coscienza di provare a raddoppiarti un seppur misero compenso per non lasciarti andare?». Conclude Aldo. «E’ così che va, purtroppo storie simili alla mia e di altri ragazzi come me, ce ne sono, basta avere il tempo di cercarle e la voglia di scriverle. Naturalmente dopo che uno abbia avuto il coraggio di raccontarle».