Kouamé, ventisette anni, ivoriano, si racconta
«Ho lavorato in Libia, risparmiato e comprato il viaggio per l’Italia. Mio padre assassinato a bastonate, una esecuzione davanti a testimoni. Mi piacerebbe restare qui, ma di sicuro non tornerei mai indietro»
«Mi chiamo Kouamé, ho ventisette anni, vengo dalla Costa d’Avorio, Africa occidentale, sono musulmano, parlo francese e sto imparando l’italiano: sarei rimasto volentieri a casa mia, ma una serie di tragedie si sono abbattute sulla mia famiglia: mio padre morto, restano mamma e due miei fratelli, più piccoli: papà ci ha rimesso la pelle, nemmeno ammazzato da un governativo: è stato un conoscente che durante un litigio è andato giù duro, prima con legnate, poi con sassate…». Sembra uno di quei film che raccontano la storia primordiale, l’uomo che non ha ancora compiuto i primi passi verso la civiltà: morte tua, vita mia. «Ma più di qualche litigio nel mio Paese si risolve in modo violento: l’esercito interviene solo per evitare assembramenti, focolai di proteste, perché non si riempia la piazza e cento non diventino mille, diecimila e via così…».
Ha il chiodo fisso della democrazia Kouamé, come dargli torto. Dalle sue parti “democrazia” è una parola bella quanto “mamma”. «E’ lei che ti ha dato la vita – dice il ventisettenne ivoriano – e i primi insegnamenti, il rispetto del prossimo, della gente, della vita umana: anche se uno non la pensa come te, va rispettato comunque; non deve avere avuto lo stesso tipo di educazione l’assassino di mio padre, visto che la discussione è degenerata al punto tale che quel matto furioso ha stretto in pugno la prima cosa che gli è capitata fra le mani, un bastone pesante, e ha cominciato a picchiare mio padre alle spalle, alla nuca, ai fianchi, nonostante fosse stramazzato al suolo».
PAPA’, AMMAZZATO…
Qualcuno ha visto la scena, l’ha raccontata in giro, qualche altro gli ha suggerito di farsi gli affari propri. «Ma a noi è giunta, raccontata a tratti, l’intera storia: l’aggressore si è accanito contro quel corpo inerme, steso davanti ai suoi occhi, quasi volesse mettere in scena un agguato, come se mio padre fosse stato colpito da più uomini, ecco perché dopo le bastonate sono arrivate le sassate, presumo anche dopo che mio padre aveva reso l’anima al Cielo…».
Una storia archiviata dalla polizia locale come “Omicidio commesso da ignoti”. Al plurale, come a sostenere quella messinscena era stata una mossa diabolica, vincente per quell’assassino. Qualsiasi fosse stato il motivo della discussione, ricorrere alla violenza è da bestie.
«Senza mio padre – spiega Kouamé – ho trovato lavori saltuari, scuola nemmeno a parlarne, nel mio Paese se non hai i soldi sei meno che niente: lì ci sono milioni di poveri, pochi ricchi, è l’ingiustizia sociale; c’è chi non ha il denaro per mangiare anche una sola volta al giorno, chi invece se la gode e i soldi li getta perfino nel water; così ho salutato mamma e i miei due fratelli e sono partito per la Libia, lavoravo in una impresa di pulizie dal mattino presto fino a pomeriggio, senza un attimo di sosta; una volta smesso, dopo aver mangiato qualcosa al volo, mi dedicavo a radere aiuole e pulire i giardini di chi aveva bisogno di manodopera: un anno e mezzo di questa vita, i soldi ben nascosti addosso, infine l’incontro con un mediatore che mi presentò a uno scafista e il lungo viaggio dalla Libia all’Italia…». Ricorda come se fosse ieri, Kouamé. «In realtà non era proprio uno scafista, ma il proprietario di un gommone, che aveva più riparazioni che persone a bordo, e parlo di quasi un centinaio di profughi come me: rispetto a quello affrontato da migliaia di africani, il mio viaggio non è stato così pericoloso; avvistati in mare da una nave mercantile siamo stati scortati sulle coste della Sicilia, da lì in Puglia…».
«PRIMA IL RISPETTO!»
La democrazia è il chiodo fisso di Kouamé. Come dargli torto. «Qui vedo che il Natale viene celebrato come la Festa delle feste, in Costa d’Avorio qualcosa che gli assomiglia per importanza è il Tabaski, la Festa del sacrificio: per qualche giorno vestiamo tutti allo stesso modo, mangiamo le stesse cose, perché in quei momenti dobbiamo essere tutti uguali, così insegna il Profeta…». Il futuro di Kouamé. «Mi dedico a lavori saltuari, rinnovo contratti, ora come addetto alle pulizie, talvolta come elettricista, tanto che me la cavo con gli impianti, ho fatto una buona scorta di esperienza in Libia: una parte del guadagno lo spedisco a casa, uno dei miei due fratelli studia, spero faccia quel percorso che non ho potuto compiere io a causa della morte di papà. Per il resto, non mi dispiacerebbe restare in Italia, qui mi sento come a casa, inserito nel tessuto sociale; non riuscissi a restarci dovrò prendere in considerazione l’ipotesi di andare via, ma certamente non tornare più al mio Paese: una volta che hai assaporato la bellezza del rispetto, la democrazia, non puoi nemmeno lontanamente pensare di tornare indietro, uno degli ultimi insegnamenti di mio padre…»