Demba, senegalese, fuga dalla povertà

«Quattro giorni in alto mare, motore fuori uso, onde come grattacieli. Avevo maturato l’idea di andare via da casa già qualche anno fa. Mio padre non ha mai condiviso la scelta. Ho lasciato due fratelli e due sorelline, che aiuto con il mio lavoro. Tre mesi di prigionia, tre come giardiniere. Salvi grazie alla marina italiana»

Settanta su un gommone, onde alte come grattacieli, il motore prima perde giri, poi abbandona del tutto passeggeri e conducente dell’imbarcazione di fortuna. «Il più preoccupato, alla fine, era quest’ultimo – racconta Demba, senegalese, musulmano, ventitré anni – oltre alla paura che stava contagiando tutti, l’uomo che conduceva quel gommone sentiva la responsabilità di non aver portato a compimento la sua missione: lasciarci, cioè, in prossimità di un porto sicuro, possibilmente l’Italia».

E’ stato un viaggio lungo e faticoso, racconta Demba. «A casa, in particolare papà, non vedevano di buon occhio che andassi via: all’apparenza il mio Senegal stava vivendo un momento di ripresa economica, in realtà l’impressione che stavo ricavando era che stessero aumentando i poveri e che, prima o poi, le fasce più deboli avrebbero risentito di una crisi ancora più grave di quella che mi stava spingendo ad andare lontano da lì».

Uno dei maggiori ostacoli, il papà. «Lui non voleva che andassi via – spiega – il principio era che le cose andavano aggiustandosi e dove ci fosse stato da mangiare per sei, ci sarebbe stato da mangiare anche per sette: ho due sorelle e due fratelli, solo uno di questi più grande di me, oltre mamma e papà, ma quella vita fatta di stenti senza una vera prospettiva non faceva più per me: papà insistette con le buone, cercò di farmi ragionare; il suo punto di vista non faceva una grinza, ma l’idea di lasciare a malincuore – non è bello gettarsi alle spalle le proprie radici – il mio Paese, l’avevo maturata già tempo prima: volevo compiere un’impresa, qualcosa della quale tutti andassero fieri di me; papà non l’aveva presa bene».

LAVORARE, IL MIO PRIMO SOGNO

Il normale che diventa speciale. «Volevo trovare un lavoro – racconta Demba – che mi facesse stare bene, non solo dal punto di vista economico, ma da quello psicologico». Questo aspetto, quello psicologico, è un viaggio mentale che accompagna il ventitreenne senegalese. «Quando ero a casa pensavo all’Italia; in viaggio quel grave contrattempo occorso alla nostra imbarcazione – eravamo in settanta – mi aveva sconvolto, come al resto dei passeggeri: ci sembrava non ci fosse più una via di scampo, non ci restava che pregare; infine il lavoro, trovato grazie a “Costruiamo Insieme”: da assistito ad assistente, la mia vita stava imboccando la strada giusta».

Non ci piace mettere il dito nella piaga, ma la vicenda del viaggio manca di dettagli. «Quattro lunghi giorni non sono dettagli: possono sembrare a chi quella storia la racconto in pochi minuti; provo a fare un viaggio a ritroso: soffro il mal di mare, al solo pensiero lo stomaco comincia a brontolare, a salirmi in gola: ripenso a quei giorni in mare aperto; le onde erano alte come palazzi infiniti, quel gommone al quale tutti restavamo aggrappati con la paura che una onda più forte ci sbattesse fuori, veniva sbattuto da una parte all’altra: avevo delle brioche a portata di mano, le mangiavo non appena avevo fame, ma non riuscivo a digerirle che già le rimettevo; ho provato a mangiarne anche quando il motore ci ha abbandonati del tutto: invocavamo il Cielo che tutto si aggiustasse, niente da fare, fermi in alto mare con la paura della notte, di onde che sembravano enormi fantasmi neri da metterci una paura matta; arrivavano all’improvviso, non sapevamo mai quando tutto quello sbattimento potesse finire; un po’ più sereni alle prime luci dell’alba, ma la paura era sempre tanta, i giorni passavano, la paura restava, anzi era sempre più grande, le forze ci stavano abbandonando».

Distrutti, dalla fame, dal malessere, sotto l’aspetto psicologico. «Ci saremmo salvati alla fine? Chi può dirlo. Non avevamo più speranze, fino a quando, miracolo, una nave mercantile ci ha avvistati e avvicinati: eravamo salvi, finalmente a bordo; di colpo a me era passato tutto, avvertivo meno il mal di mare, avevo il cuore pieno di gioia e l’impressione di calpestare la terra ferma tanto solida era quella nave».

UNA NAVE MERCANTILE, UNA MILITARE

Un SOS, arriva un’altra nave. «Una nave militare italiana: una volta a bordo, avevamo l’impressione di stare a casa, ci trattavano bene, l’equipaggio ci dette panni e cibo da mangiare, in quel momento potevamo dire di essere finalmente salvi e sul suolo italiano! Dopo un viaggio breve, l’arrivo a Palermo, trasferiti a Bari e, infine, a Taranto, destinazione “Costruiamo Insieme”».

Esperienza libica da dimenticare. «Devo essere sincero, ho attraversato Mali, Burkina Faso, Niger, Algeria, infine Libia. Ho fatto tre mesi di prigionia, in mano a gente armata: non avevo di che pagare la mia libertà, loro insistevano perché i soldi per il mio riscatto me li facessi mandare da casa; nessuna telefonata a mio padre, sapevo già cosa mi avrebbe risposto: “Hai preso una decisione? Bene, prenditi anche le tue responsabilità!”. Conosco mio padre, con il lavoro trovato grazie alla cooperativa invece ho cominciato a mandare soldi a casa per far studiare le mie due sorelline; in Libia, tre mesi di reclusione, qualche altro mese impegnato come uomo di fatica in un supermercato; non posso lamentarmi, non sono mai stato picchiato: rinchiuso sì, ma nessuna violenza come, invece, hanno subito altri fratelli che si sono messi in viaggio, come me, alla ricerca di libertà e rispetto».

Un ricordo di quella esperienza. «Uno dei soldati mi prese a benvolere, lavorai per lui come giardiniere, dopo tre mesi mi mise a bordo di quella “bagnarola” – così le chiamate qui – il resto è storia, fine di un incubo».