Benjamin, nigeriano, il suo sogno

«Non voglio dipendenti, non sono abituato al comando, saprei sbrigarmela da solo. Anche fare il cameriere non mi dispiacerebbe. Costretto a lasciare il mio Paese alla scomparsa di papà. I miei zii ci estorsero un terreno con le cattive. La fuga, in Libia a lustrare auto, poi finalmente l’Italia»

«Sogno un autolavaggio tutto mio, non uno di quelli grandi da gestire con tanto personale da comandare: “comandare” è un verbo che non mi piace, sottintende qualcuno che deve obbedire senza fiatare e i miei ventitré anni vissuti in un Paese nel quale la regola principale è “Non esistono regole”, mi basta e avanza».

Benjamin, nigeriano, da due anni in Italia, potrebbe scrivere un romanzo, tanto la sua storia è articolata e piena di colpi di scena, molti dei quali dai toni drammatici. Un autolavaggio. Nelle “due chiacchiere” questo suo sogno sbuca da ogni parte. E’ diventata una fissazione. Ci fosse uno psicanalista magari penserebbe che da piccolo giocava con sapone e spugna. «Non è molto remota questa ipotesi, ho cominciato da adolescente a lavorare in una stazione di servizio in Nigeria: posso smontare un’auto, dai sedili ai fanali, tirare fuori posacenere e altri strumenti di bordo in un attimo; nessuno sa riconoscere un’auto dal suo interno meglio di me…», dice il giovanotto nigeriano, autolavaggio nella testa e sulla punta delle dita.

FRA SPUGNE E PRODOTTI PROFUMATI…

«In Nigeria lavoravo tutta la giornata, quasi mi dispiaceva dover staccare dal lavoro, quando questo non era massacrante, e c’è un perché…». Si spiega. «L’ho fatto anche in Libia, per guadagnarmi qualche spicciolo che mi sarebbe servito per pagarmi il viaggio per l’Italia: lì era tutta un’altra storia, le cose stavano cambiando, ero appena scappato dal mio Paese e mi ero temporaneamente rifugiato in una nazione nella quale si avvertiva, chiara, la guerra civile; lì i turni erano massacranti e i soldi li vedevi solo se al titolare di quello che era più un piazzale che una vera stazione di servizio, scivolavano dalle tasche: poco per volta, con molti sacrifici, stavolta con la schiena spezzata e sempre più spesso con la speranza che la giornata finisse al più presto, mettevo da parte i soldi per il viaggio per l’Italia…».

Ma se proprio Benjamin non riuscisse a realizzare il suo sogno, lustrare le auto a vita, avrebbe pure un piano B. «Il cameriere! E’ la seconda cosa che accetterei di fare con grande gioia: forse per tutti quei film visti in tv, dove il cameriere è sempre elegante; come seconda scelta servirei volentieri in un ristorante, sì è proprio quello che, alla fine, farei altrettanto volentieri».

Prima di tornare all’autolavaggio o in un ristorante o  una casa nella quale circolano maggiordomi, Benjamin racconta la sua storia. Comincia con un grande dolore. Fa uno sforzo, smorza il suo sorriso. «Mio padre morto, a causa di un male che non perdona: di questi, in Nigeria, ne circolano molti, ma a volte abbiamo l’idea che non sia stato la fatalità, bensì lo zampino di qualcuno cha ha dimestichezza con veleni o misture che nel giro di poco ti annientano letteralmente: fatto sta che mio padre è morto, prima di spirare convocò me, mia madre e mia sorella, per dirci che i suoi fratelli si sarebbero fatti avanti per reclamare il terreno di proprietà di mio padre: qui non esistono leggi, le regole di cui ti dicevo; sei il proprietario, sbandieri il tuo atto di proprietà, te lo strappano, gli danno fuoco e ne producono di nuovi, d’accordo con le autorità del posto».

O CEDI ALLA CORRUZIONE, OPPURE…

Nessuna trasparenza. «Anche gli avvocati si allineano a questo modo di fare, se non si fanno corrompere vengono minacciati di morte. Insomma, chiunque si avvicini ai tuoi interessi che, evidentemente, non coincidono con quelli del corruttore, sono guai!».

Con la scomparsa del capofamiglia i guai per Benjamin non tardarono ad arrivare. «Alla morte di papà, come aveva previsto il mio genitore quando era ancora moribondo, i miei zii si fecero immediatamente avanti: prima il nostro terreno ceduto con le buone, in cambio di pane e acqua; a modo loro si sarebbero presi cura di noi, ma avremmo dovuto lavorare per una razione di cibo giornaliera; poi le minacce: o cediamo con le buone o peggio per noi, le armi e la promessa di fare la stessa fine di papà, da qui il dubbio che papà fosse morto a causa di una malattia indotta…».

Così Benjamin, gambe in spalla scappa dal suo villaggio, dalla sua Nigeria. «Un Paese dopo l’altro, poi finalmente la Libia e l’Italia distante una traversata; mi sono sfiancato per settimane, ho messo da parte una somma modesta e poi avanzato la proposta al proprietario di una imbarcazione. “Non ce la faccio più, o ti prendi questi pochi soldi oppure io muoio e tu non vedi nemmeno questi spiccioli”». Il mare, l’Italia. «Palermo, il porto, un mezzo con il quale ci accompagnarono a Taranto, è qui che è cominciata a cambiare la mia vita: attendo una proposta per un autolavaggio, hai visto mai, qualcuno legge la mia storia e mi rintraccia attraverso il sito di “Costruiamo Insieme”?».