Da venerdì avevo il pensiero rivolto a quale poteva essere il tema di questo domenicale senza che mi venisse in mente nulla che mi piacesse, che mi ispirasse, che mi stimolasse a scrivere. Ad un certo punto, ho avuto il terrore che la normalità o, meglio, la sensazione di normalità mi avesse assorbito senza che me ne fossi accorto.
E’ brutto perché piano, lentamente senti crescere dentro un senso di angoscia, di sconfitta con te stesso.
“Possibile?” ti chiedi.
Riesci a dare una giustificazione ad un blocco intestinale, un blocco renale, anche alla diarrea, ma darti da solo una giustificazione ad un blocco cerebrale diventa difficile. Diventa necessario un processo di auto analisi, uguale a quello che fai per resettare il computer quanto si blocca.
Spegni la televisione, spegni qualsiasi canale di comunicazione a partire dal telefono e lasci che il cervello trovi il suo tempo per recuperare e riaccendere funzioni spente.
Operazione utile e pericolosa allo stesso tempo, perché se ti costringe a ragionare fuori dall’ordinario e dentro la quotidianità gli devi dedicare l’intera notte.
Non puoi sfuggire, non puoi rimandare e neanche dire “ti richiamo, ora non posso” come fai al telefono.
E’ come una donna al momento del parto o un bambino che sta per venire alla luce: non puoi dettare i tempi, decidere il momento giusto.
Ed è così che capita, nel pieno della notte, di ritrovarti a riflettere su come si possa, nell’era dell’esaltazione della globalizzazione, continuare a giocare sulla differenza fra popolo e popolazione.
Se vi è il rispetto delle regole, i due termini si annullano sciogliendosi dentro un concetto omnicomprensivo che è quello di cittadini, ovvero persone che convivono su uno stesso territorio e hanno uguali diritti e doveri.
Sembra un ragionamento logico che, però, non si traduce nella realtà. Anzi, è parecchio lontano dalla realtà!
Quando leggo o sento di rivendicazioni identitarie e di movimenti secessionisti rabbrividisco al pensiero che nessuno si interroga sul fatto che quella che ci hanno abituati a chiamare globalizzazione riguarda un pezzo di vita del quale siamo protagonisti passivi, spesso vittime inconsapevoli, di un sistema governato dai grandi gruppi finanziari, dalle lobby: se si fosse trattato di una rivoluzione culturale questo mondo sarebbe stato assai diverso abbattendo qualsiasi muro che impedisce la convivenza.
L’incapacità di leggere i profondi mutamenti sociali ed il ricorso all’ideologizzazione in assenza di argomentazioni che reggano trasformano, in Italia, la discussione sulla necessità di rivedere la normativa sul diritto di cittadinanza in una bagarre nella quale si moltiplicano i prestigiatori di parole.
Voglio proporre all’attenzione l’appello sottoscritto da docenti e intellettuali in favore dell’approvazione della proposta di Legge sullo Ius Soli, utile in un Paese che ha da recuperare tanto sul tema della convivenza e, allo stesso tempo, assurda dentro un contesto globalizzato.
Appello di docenti ed educatori per lo ius soli e lo ius culturae
Noi insegnanti guardiamo negli occhi tutti i giorni gli oltre 800.000 bambini e ragazzi figli di immigrati che, pur frequentando le scuole con i compagni italiani, non sono cittadini come loro. Se nati qui, dovranno attendere fino a 18 anni senza nemmeno avere la certezza di diventarci, se arrivati qui da piccoli (e sono poco meno della metà) non avranno attualmente la possibilità di godere di uguali diritti nel nostro paese.
Ci troviamo così nella condizione paradossale di doverli educare alla “cittadinanza e costituzione”, seguendo le Indicazioni nazionali per il curricolo – che sono legge dello stato – sapendo bene che molti di loro non avranno né cittadinanza né diritto di voto.
Questo stato di cose è intollerabile. Come si può pretendere di educare alle regole della democrazia e della convivenza studenti che sono e saranno discriminati per provenienza? Per coerenza, dovremmo esentarli dalle attività che riguardano l’educazione alla cittadinanza, che è argomento trasversale, obbligatorio, e riguarda in modo diretto o indiretto tutte le discipline e le competenze che siamo chiamati a costruire con loro.
Per queste ragioni proponiamo che noi insegnanti ed educatori martedì 3 ottobre ci si appunti sul vestito un nastrino tricolore, per indicare la nostra volontà a considerare fin d’ora tutti i bambini e ragazzi che frequentano le nostre scuole cittadini italiani a tutti gli effetti.
Chi vorrà potrà testimoniare questo impegno anche astenendosi dal cibo in quella giornata in uno sciopero della fame simbolico e corale.
Il 3 ottobre è la data che il Parlamento italiano ha scelto di dedicare allamemoria delle vittime dell’emigrazione e noi ci adoperiamo perché in tutte le classi e le scuole dove è possibile ci si impegni a ragionare insieme alle ragazze e ragazzi del paradosso in cui ci troviamo, perché una legge ci invita “a porre le basi per l’esercizio della cittadinanza attiva”, mentre altre leggi impediscono l’accesso ad una piena cittadinanza a tanti studenti figli di immigrati che popolano le nostre scuole.
Ci impegniamo inoltre a raccogliere il numero più alto possibile di adesioni e di organizzare, dal 3 ottobre al 3 novembre, un mese di mobilitazione per affrontare il tema nelle scuole con le più diverse iniziative, persuasi della necessità di essere testimoni attivi di una contraddizione che mina alla radice il nostro impegno professionale.
Crediamo infatti che lo ius soli e lo ius culturae, al di là di ogni credo o appartenenza politica, sia condizione necessaria per dare coerenza a una educazione che, seguendo i dettati della nostra Costituzione, riconosca parità di doveri e diritti a tutti gli esseri umani.
Al termine del mese consegneremo questa petizione ai presidenti dal Parlamento Laura Boldrini e Pietro Grasso tramite il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, perché al più presto sia approvata la legge attualmente in discussione al Parlamento.