Zaki, nigeriano, un papà e due fratelli in Nigeria
Venticinque anni, racconta la fuga in mare, le notti insonni, nascosto in Libia perché i miliziani non lo portassero in prigione. «Il mio più grande desiderio? Riabbracciare mio padre, i miei due fratelli, mamma purtroppo non c’è più: sarebbe bello ci ritrovassimo qui, in Europa, vivere in Africa è un vero tormento».
«Un gran pasticcio!». Tutto questo è la guerra, ler persecuzioni, la fame, la fuga. Tutto questo, per Zakiyyah, questo il suo nome pere esteso, è «un gran pasticcio!». In realtà usa un’altra frase, una delle espressioni più care dalle nostre parti che amiamo accorciare in una sola battuta un concetto, specie se si vuole andare dritti al cuore della questione.
E’ una delle prime cose che il giovanotto di appena venticinque anni ha imparato non appena è sbarcato in Italia. Spiega la crisi dalla quale è scappato, i contrattempi che ha trovato per inserirsi possibilmente in un diverso tessuto sociale, dunque non trova di meglio che questa breve frase. «Un pasticcio esagerato!». E quando le cose vanno ancora peggio, come lo stesso Zaki racconta, la frase, essenziale, che spiega tutto questo disagio, rende meglio l’idea aggiungendo l’aggettivo “grande”. Dunque, com’è la tua vita, Zaki? «…Un gran casino!». E giù a ridere.
«Sono venuto via dalla mia Nigeria quattro anni fa – dice – la città in cui vivevo con la mia famiglia; la situazione era già complicata, sentivamo alle porte delle nostre case le milizie che volevano rispettassimo la volontà del governo: guai opporsi; i miei fratelli, mi dicono, che questa gente se la trovano praticamente in casa, con tutte le difficoltà, gli stenti ai quali la popolazione viene quotidianamente sottoposta».
TREMENDO ANCHE LI’
Dunque, in Nigeria, anche per la famiglia di Zaki è «tutto un gran pasticcio!». «Gli ultimi tempi – prosegue il giovane – avevo vissuto con mio zio; mamma era morta, con papà avevo avuto continue discussioni, così per evitare litigate furiose ho accettato l’ospitalità di mio zio; poi lui è andato via, ha abbandonato casa, i militari li aveva praticamente alle costole, così anche io ho dovuto fare una scelta, dolorosa».
Ma indietro non si torna. «Tornare a casa? Nemmeno a parlarne, avevo compiuto la mia prima scelta, litigare cioè con mio padre e le sue idee; visto che avevo rischiato grosso, tanto valeva proseguire e andare via dal mio Paese: non avevo alternative; andare via, un grande dolore, la sensazione di una sconfitta che brucia tutti i giorni; lasciare i luoghi che ti hanno visto bambino e poi crescere, è quanto di peggio possa accadere a una persona: dopo generazioni sei tu quello che toglie le radici e non dà continuità alla tua famiglia, quello che ti hanno lasciato i padri dei nostri padri…».
«Per fortuna ho ripreso i contatti con la famiglia; con i miei due fratelli, che mi raccontano spesso come vivano la situazione in Nigeria: i militari ce li hanno praticamente in casa, si sentono oppressi; non solo, fanno la fame, come in tutti quei Paesi dove c’è la guerra; quando ci capita di parlare sento nelle loro parole tutta la tristezza del disagio, della paura: e quando sento da settimane quello che accade in Ucraina è come se rivivessi quei momenti».
Il rapporto con papà. «Lo sento – confessa – ci hanno pensato i miei fratelli a mettere pace: sarebbe stato sciocco continuare a mantenere sciocche distanze; non era proprio il caso. Nelle nostre brevi chiacchierate al telefono, i miei fratelli mi spiegano i dolori giornalieri cui la popolazione viene sottoposta: un dolore che si aggiunge ad altro dolore».
DESTINAZIONE ITALIA
Il suo viaggio per l’Italia, passando per la Libia. «Sono stato sei mesi lì, mi facevo vedere poco in giro, dormivo dove capitava, per evitare che anche lì miliziani o banditi: se cadevi nelle loro mani, botte e via il denaro dalle tasche, nel caso avessi guadagnato qualche dinaro: nel frattempo ho fatto qualche lavoretto, muratore, specializzato in muri a secco; magari mi capitasse di fare qualcuno di questi lavori qui da voi». C’è un desiderio in cima alla lista. «Dare una mano ai miei fratelli, papà: lasciare a loro la decisione di restare a casa e aspettare tempi migliori oppure affrontare un viaggio sempre pericoloso, a me fortunatamente durato cinque giorni: su un gommone, con altri cento ragazzi, con tanta fame e tanta paura».
Ha grande dignità, Zaki. Se provi ad offrirgli una colazione, lui, il venticinquenne nigeriano risponde con educazione: «No, grazie come se avessi consumato».
Mani in tasca, fissa il mare. Prova a guardare il sole, le cose che più di altro gli danno il senso di libertà. «Non ti nascondo – ammette – che mi capita di pensare ogni giorno ai miei fratelli, a mio padre: tornare ora a casa sarebbe un problema, il viaggio inverso non serve, mi troverei in piena guerra civile; i miei cari non vogliono saperne, stanno male ma stanno a casa, impossibile farli ragionare».
Zaki trascorre le sue giornate senza affanni. «Faccio due passi, chiedo a qualcuno se ha bisogno di una mano, per lavori in muratura e quando sto male mi faccio coraggio da solo: trovare un buon lavoro e riabbracciare la mia famiglia: è il mio desiderio più grande».