«Al bando sigarette e alcol!»

Silvio Garattini, novantasei anni, oncologo, invita a una vita sana

«Cominciamo a depennare dalle nostre abitudini il fumo e il bere, sarebbe un bell’inizio», dice il professore, bergamasco di nascita («Assegnerei il pallone d’oro a Gasperini, tecnico dell’Atalanta»), salentino di adozione (cittadino onorario, prossimamente anche di Lecce). La sua dieta. «Salto il pranzo, la sera antipasto, primo e dolce; cammino ogni giorno per cinque chilometri, ma sono importanti anche la mente e i rapporti sociali»

 

Esiste una ricetta per vivere a lungo? Chi può dirlo. Di sicuro esiste un sistema di vita che ci dice come vivere meglio. Insomma, ci sarebbe anche un mix fra le due cose. Se ne fa garante un uomo dalla statura intellettuale acclarata. Se poi, è un grande studioso, ha compiuto novantasei anni, ma ne dimostra tanti in meno, non facciamo certo fatica a stare ad ascoltarlo (o leggerlo) con la massima attenzione, se ci è cara la pelle.

Lo studioso in questione, altri non è che un volto noto a quanti vedono la tv, sfogliano i giornali, i siti internet: Silvio Garattini. Oncologo di fama mondiale, bergamasco di nascita, ma salentino d’adozione, è un noto farmacologo e ricercatore italiano. Presidente e fondatore dell’Istituto di ricerche farmacologiche “Mario Negri”, appena il mese scorso ha compiuto 96 anni. Quale migliore occasione per “svelare” la ricetta della longevità. Lo scienziato, cittadino onorario di Matino, a breve cittadino onorario anche del comune di Lecce, ha incontrato di recente gli studenti del liceo scientifico Banzi (lectio “Il futuro della nostra salute: prevenzione è rivoluzione”). Quell’incontro è stata l’occasione per ufficializzare il riconoscimento da parte di Palazzo Carafa. Un momento nel quale ha ricordato, inoltre, le sue origini salentine avendo avuto una nonna nata proprio a Matino, cittadina a una trentina di chilometri da Lecce.

 

 

«NON ESISTE UNA RICETTA…»

Garattini a chiunque gli chieda la ricetta della longevità, risponde senza problemi: «Non c’è una ricetta». Intervistato dal Corriere della Sera, infatti, proprio nei giorni scorsi ha raccontato un po’ delle sue abitudini, che possono tornarci utili, considerando che un fisico (e un corpo) non è come un altro. Questo, beninteso, per sgombrare il campo dagli equivoci.  Da buon bergamasco, nell’intervista al Corsera parla del suo grande affetto per il tecnico Gian Piero Gasperini. «Se non lo danno a lui, mi spiegate a chi devono assegnare il Pallone d’Oro?». Non si sottrae al tema-pandemia mai tramontato, tanto che senza giri di parole dice a chiare lettere: «La vaccinazione è stata considerata con grande ritardo»; per non parlare della ricerca, «In Italia considerata una spesa, piuttosto che un investimento».

In una intervista riportata dal Nuovo Quotidiano di Puglia, Garattini parte dalla prevenzione. «Fondamentale – spiega lo studioso – basti pensare che il 40% dei tumori è evitabile, eliminando i fattori di rischio più comuni, ma in Italia muoiono ogni anno circa 180mila persone: lo stile di vita ha un effetto molto importante; molto dipende da noi: il fumo è un fattore di rischio per tumori, oltre che per altre ventisette malattie, ma nonostante questo abbiamo ancora dodici milioni di fumatori; l’alcool è cancerogeno ma è come se non lo fosse, tutti bevono regolarmente bevande alcoliche: e se è cancerogeno non esiste una soglia, anche berne poco, pur con una probabilità più bassa, espone al rischio; poi ce ne sono altri come il sovrappeso, l’obesità, ma anche l’uso esagerato di carne rossa per quanto riguarda il cancro al colon».

 

 

«LUNGHE CAMMINATE, NIENTE PRANZO»

Senza tanti giri di parole, novantasei anni, qual è la dieta a cui si sottopone lo stesso Garattini. «Salto il pranzo; la sera prendo antipasto, poi primo e dolce ma cerco di alzarmi con un po’ di appetito; ho osservato buone abitudini di vita, cammino ogni giorno per cinque chilometri, ma, attenzione, non è solo una questione fisica: anche la mente è importante, come è importante mantenere i rapporti sociali».

Cerchiamo di capire se esiste una dieta ideale. «In generale, bisogna mangiare poco per avere una vita più lunga, fare una dieta molto varia ed evitare i cibi “ultraprocessati”. Inoltre non affezionarsi a nessuna moda: c’è molta confusione in giro e si tende più a cercare nuove cose da vendere che a diminuirle; non abbiamo una scuola superiore di sanità: sarebbe molto importante per formare i dirigenti del servizio sanitario nazionale che spesso assumono ruoli di vertice senza la giusta formazione. La prevenzione per affermarsi in medicina ha bisogno di una grande rivoluzione culturale che passi attraverso una scuola di sanità e forme di educazione alla salute, oggi inesistenti, in buona sostanza basterebbe anche un’ora a settimana in ogni classe per cambiare completamente la mentalità». 

Again, emozione Pino Daniele

Scomparso dieci anni fa, sbuca un delizioso inedito

Merito dei figli Alessandro e Sara, che concedono la “prima assoluta” al “Maradona”, una volta San Paolo. Un’emozione per cinquantamila spettatori. Non si contano gli applausi. Lo stesso gli aneddoti legati alla sua lunga storia. Grande musica, grandi emozioni, tanta educazione e tanto rispetto. Napoli Centrale, Massimo Troisi, Tullio De Piscopo, un concerto a Maricentro poi programmato per “Mister Fantasy”, trasmissione-cult di Raiuno

 

«Camminerai ed io sarò davanti al tuo respiro, insieme». E’ l’inizio di “Again”, brano inedito di Pino Daniele. E’ una domenica di calcio, a Napoli, così si suggella il fortissimo legame tra Pino Daniele e il San Paolo, come si chiamava lo stadio di Napoli ai tempi del grande cantautore scomparso dieci anni fa.

Questo brano, “Again”, ritrovato già cantato e mixato da Pino Daniele e dai figli Alessandro e Sara, è stato programmato dall’impianto audio dello stadio dove Pino si esibì in concerto per regalare una nuova emozione ai cinquantamila tifosi napoletani che sono lì per assistere a una partita casalinga della squadra allenata da Antonio Conte. La squadra azzurra gli farà onore.

Quando si parla di Pino, non è un caso che a quanti lo hanno amato tornano in mente episodi, aneddoti. La sua storia passa dalla Puglia, ma anche da queste parti, da Taranto. La sua è una storia che comincia presto, nessuno sa dove la sua passione per la musica e la chitarra potranno condurlo. Intanto macina chilometri, poi si vedrà.

 

GLI INIZI…

Va su è giù per l’Italia. Nonostante le sue prime canzoni siano scritte e cantate in napoletano. Pino, fin da giovane ama spettinare i giochi, ha scelto il dialetto per dire da che parte lui sta. Evidenti le tracce di Napoli Centrale, esperienza che più di altre, parole sue, lo formerà come artista. Quarantasette anni fa, le prime sue cose, i suoi primi dischi. “Terra mia”, il primo album, poi i concerti. Primo incontro con l’artista di “Je so’ pazzo” all’Hotel Imperiale, in via Pitagora a Taranto. Alle spalle le già popolari “Napule è” e “’Na tazzulella e’ cafè”. Gli tocca la Villa Peripato, concerto all’interno della Festa dell’Unità. Quel piccolo albergo di fronte alla location che lo ospiterà un paio di ore dopo, è l’ideale.

«Era sotto la doccia, scende subito», dice il portiere. Niente telefono in camera, solo il citofono. Pochi istanti dopo, arriva Pino, capelli ancora bagnati. Addosso un accappatoio amaranto, in una mano un asciugamano dello stesso colore. Lo sfrega forte sulla sua chioma, ancora nera, ancora bagnata.

«Scusate se sto ancora così, sono arrivato tardi, fra poco faccio le prove, devo recuperare tempo…». Gentile, mette una sottile fretta. Appunti stesi su un foglietto. Sono le domande da porgli, troppe, superiori al numero sindacale. La curiosità di accendere il primo riflettore sul carattere e la musica di questo giovane artista è tanta. Sorride Pino, ciondola il capo, accelera mano e asciugamano sui capelli, come se con quel gesto volesse accelerare. «Tutte quelle domande? Azz, e quando ci sbrighiamo? Jamme, va…». Prima cominciamo, prima finiamo.

 

 

SILENZIO, PARLA PINO…

Tutto sta nello spaccare subito i giochi. Parte il “Nagra”. «La mia esperienza più bella, quella con Napoli Centrale; conoscere Mario Musella e suonare con James Senese è stata proprio ‘na bella storia; poi, ma non lo dico perché sto in Puglia, mi piacciono le canzoni di Matteo Salvatore, trovo affascinante il suo mondo».

Estate ’82, sceglie la Puglia, Taranto, Maricentro. Ha già suonato e suonerà ancora in città: Villa Peripato, già detto, poi Mazzola, Iacovone, Circolo Ilva, Tursport e Ippodromo Paolo VI. Nel casermone di Maricentro registra il concerto “Bella ‘mbriana”. E’ uno special per Mister Fantasy, trasmissione-culto di Raiuno. Carlo Massarini, Luzzatto Fegiz e così via. Con lui, cappellone larghe falde e sax, c’è anche Gato Barbieri. Altro regalo all’artista napoletano nel frattempo diventato immenso. Nel pomeriggio, Pino confessa la sua fuìtina da Napoli. «Amo la mia città, i quartieri spagnoli che hanno ispirato le mie prime canzoni, ma non posso più viverci: ti cercano, ti acchiappano, ti fermano, ti invitano, ci restano male se non vai a una festa: così rischi di diventare l’icona di te stesso, non potevo più lavorare; così, non senza dispiacere, ho scelto Roma, una dimensione diversa: lì di cantanti e attori ne vedono a decine ogni giorno; sei solo la figurina di un album: esco con mia moglie, i figli, nun te caca nisciuno…».

 

«SI STA ESERCITANDO»

Quando lo incontri, che sia Lecce, piuttosto che Brindisi o Bari, la storia è sempre la stessa. «Si sta esercitando alla chitarra», anticipa uno dei suoi collaboratori. «Un po’ di pazienza, ma non appena finisce di suonare, può bussare…». Toc toc, «Chi è?». Amici. «Avanti! Scusate, mi stavo allenando in un passaggio…». Si scusa, Pino, un insegnamento per gli artisti piccoli piccoli, educazione e rispetto non si comprano. Si allenava almeno dal ’77, da quando lo incontrammo la prima volta. «Non mi accontento di essere l’unico a poter cantare le mie canzoni, voglio diventare un grande chitarrista, comunque affinare una tecnica che penso sia già a buon punto», confessò. Un perfezionista, un metodico. E un buono. Scrisse con Fabio Concato, “Canzone per Laura”. Al collega regalò una delle sue chitarre più preziose. In un altro momento, ce lo confessò lo stesso autore di “Domenica bestiale”. «Gli dissi “Ti piace? Che aspetti, pigliatélla, prenditela, se no ci ripenso”».Aveva un cuore grande così, Pino. Talmente grande da giocargli brutti scherzi. Per il suo amico Massimo Troisi non aveva solo scritto “Quando” e “Qualcosa arriverà” per farne colonne sonore di film di successo. Condivise “O’ ssaje comme fa’ ‘o core”. In quest’ultima canzone, Pino suona e canta, Troisi recita. «Con Massimo ci unisce il cuore, siamo due generosi, ma ogni tanto questo muscolo, piccolo come un pugno chiuso ci fa piglia’ paura». L’attore accusa spesso problemi cardiaci, Pino ha appena subito una delicata operazione, proprio nello stesso ospedale in cui era già stato operato Troisi. «Per un po’ devo limitarmi a fare dischi», ci raccontò Pino. Chiamava ancora così ostinandosi gli album che da tempo erano diventati cd. L’operazione gli aveva abbassato il volume della voce. «Concerti non ne posso fare, in questo momento devo stare a riposo, posso limitarmi ad entrare in studio: dalle corde della chitarra sono passato ad esercitare le corde vocali, devo tornare a lavorare sulla voce, applicarmi con pazienza per ottenere il massimo con il minimo sforzo».

 

 

PINO, IL RITORNO

Tornò ai concerti, partendo da un’atmosfera acustica, lanciato in un unpluggedromano firmato dalla sua nuova casa discografica, la CGD. Aveva da poco lasciato la Emi. C’era qualcosa che lo contrariava. «Non condivido le compilation, artifici di discografici che non rispettano il tuo lavoro: pubblicano raccolte che non hanno capo né coda, come “il meglio di…”: ma chi lo dice che quello sia il meglio, poi le raccolte d’amore, non mi ci far pensare che è meglio…».

A proposito d’amore, un’altra volta con Pino. Con lui il figlio Alessandro. Gli faceva da personal manager. “Ale”, discreto, educato all’inverosimile, niente a che fare con altri figli d’arte. «Sono un cantautore», giustificò Pino, «quando stavo a Napoli raccontavo vicoli, disagio, storie e personaggi, ora che sono innamorato scrivo canzoni d’amore». Un’astuzia, un colpo di tacco, Pino. «…Beh, quello me l’ha insegnato Maradona, un fuoriclasse!», sorrise quella volta. Certo, Diego, ma anche Pino, in quanto a classe, ne aveva da vendere.

 

«RICOMINCIO DA TRENTA»

Infine, “Ricomincio da trenta”, un triplo album dedicato fin dal titolo al suo amico Massimo Troisi. Perché, diceva, «Come fai a dimenticare Massimo, uno con un cuore grande accussì!». Un omaggio anche alla sua storia, ai musicisti che avevano suonato con lui in “Vai mo”, album spartiacque fra quello che Pino era stato e quello che sarebbe diventato: Tullio De Piscopo, James Senese, Tony Esposito, Rino Zurzolo e Joe Amoruso.

Tutta n’ata storia, invece, il concerto in piazza Plebiscito. Ancora con il supergruppo. Manifesto pronto, tutti i nomi confermati. Fra questi, Tullio De Piscopo. Uno degli organizzatori vuole sincerarsi sulla presenza del batterista, De Piscopo assicura. «Sono in ospedale a Milano, faccio un’operazione alla cistifellea e torno!». Pino non se la beve, Tullio, compagno di concerti e dischi, non avrebbe mai fatto ricorso a una simile giustificazione: un intervento alla cistifellea è una passeggiata di salute rispetto a quello che in realtà ha il batterista: un tumore. Pino, che ha fiuto, si mette in treno e va a Milano. Parla con il primario, la sua testa sbuca in corsia, si rivolge a Tullio. «’O sapevo, che nun era ‘a cistifellea! Ti puoi mettere nel taschino mille artisti, ma no Pinuccio tuo: ti conosco troppo bene!». Infine. «Rimettiti subito, senza di te non faccio niente: un leone come te piglia a pàcchere ‘sta malattia, torna presto a casa». Intervento delicato, perfettamente riuscito. E Tullio: «Grazie a Pino, al suo incoraggiamento, ho ritrovato la forza e riabbracciato la mia famiglia, i miei nipoti!».

«Forza Edo!»

Domenica sera, gara di calcio, sfiorato il dramma

Bove, centrocampista della Fiorentina si accascia al suolo. Serpeggia la paura, reazione incontrollata, solo in un primo momento finiscono nell’occhio del ciclone i soccorsi e i sanitari. Poi il chiarimento, con il calciatore che intanto riprende conoscenza e viene trasportato nel vicino ospedale. Compagni in lacrime, colleghi, dirigenti viola e di tutte le altre società, esprimono la loro solidarietà al ragazzo di appena ventidue anni

 

Edoardo Bove, la sciagura si consuma in diretta televisiva. La gara Fiorentina-Inter, domenica pomeriggio, dopo l’ora del tè. E’ appena trascorso un quarto d’ora, il calciatore della squadra viola, compie pochi passi, si accascia al suolo. Calciatori, dirigenti, terna arbitrale, pubblico sugli spalti, rivolgono gli occhi al Cielo, invocano qualcuno lassù, perché metta una mano sulla testa, anzi, sul cuore di Edo e lo accompagni al “Careggi”, l’ospedale di Firenze a pochissimi minuti dallo stadio “Franchi”. In quei pochi minuti, che sembrano tanti, ci sono momenti di comprensibile isteria collettiva. I più lucidi sono i calciatori, qualcuno si lascia andare alle lacrime, non trova la forza di avvicinarsi. Il primo ad accorgersi che il ragazzo ha un malore, è Simone Inzaghi, tecnico nerazzurro, che si alza di scatto dalla panchina e soccorre il ragazzo. L’altro è Dumfries, avversario di Bove qualche istante prima, quando nell’area della Fiorentina i due sono venuti a contatto, poca roba. I calciatori dell’Inter seduti in panchina si alzano e insieme con i colleghi della Fiorentina fanno un cordone umano. Nessuno deve vedere quel corpo esanime. Specie i genitori e la fidanzata del ragazzo, che sono sugli spalti a seguire la gara. Intanto sono in molti a circondare l’ambulanza, a scagliarsi contro il personale medico, che ha già provveduto ad assicurare il primo soccorso allo sfortunato calciatore viola. Volano parole pesanti.

 

 

MEDICI AGGREDITI, PESSIMA ABITUDINE

Non deve essere un buon periodo per i sanitari, se più di qualcuno rifila al malcapitato che prova a spiegare che personale medico e paramedico tutto quello che prevede il protocollo lo stanno già facendo. Ma un paio di calciatori e un dirigente, forse, non vogliono saperne, rincarano la dose, spingono e il poveretto ridotto all’angolo, nonostante una stazza generosa, quasi soccombe. Urla, si difende, prova a spiegarsi. Nemmeno per sogno, viene spremuto, quasi fosse lui il colpevole di quanto fatalmente accaduto.

A bocce ferme, con l’animo un po’ più sereno, conoscendo le condizioni di Bove, da domenica sera per tutti “Edo”, c’è qualcuno che merita le scuse. È proprio quell’omone, forse un sanitario, comunque un addetto al soccorso del quale nessuno ha scritto. In quei momenti concitati, a tratti perfino comprensibili, è stato oggetto di quegli spintoni, quelle parole irripetibili, perfino minacce, di cui scrivevamo un po’ più su. E hai voglia a far comprendere a calciatori, dirigenti, bordocampisti, telecronisti, che esiste un protocollo, “quel protocollo” sottoscritto da società e associazione calciatori, e i primi soccorsi, defibrillatore compreso, sono già stati attivati.

 

CALMA E SANGUE FREDDO

In momenti in cui occorre mantenere la massima calma, c’era chi – non volendo, beninteso – faceva confusione. Spieghiamolo. L’ambulanza in campo non può entrare, la manovra sul quel campo di gioco potrebbe far perdere minuti, perfino istanti preziosi. Il mezzo di soccorso deve essere rivolto verso l’uscita, con le vie di fuga libere. Ciò per accelerare la corsa al più vicino presidio sanitario, il “Careggi” scrivevamo.

Quell’uomo, strattonato come fosse il colpevole del malore del calciatore steso metri più avanti, invece, ha fatto il suo dovere. E forse anche davanti a tante pressioni, la sua intransigenza sarà stata utile a guadagnare tempo nella corsa disperata in ospedale per salvare la vita a Edo. Dopo il malore in Fiorentina-Inter, il giocatore si trova ancora all’ospedale di Careggi. Le sue condizioni sono in miglioramento.

 

 

EDOARDO, COME VA?

Adesso Edoardo Bove sta bene, pare fosse sorridente. Se tutto dovesse andare per il verso giusto, a brevissimo passerà dalla terapia intensiva a un altro reparto. I compagni di squadra non smettono di chiedere notizie di Edo. C’è un’altra videochiamata tra il centrocampista e i compagni, che preparano la sfida di Coppa Italia. «Edoardo ha convinto la squadra a giocare», ha detto il direttore generale Ferrari.

«Grazie Firenze, ti abbiamo scelta pensando fossi proprio così, con valori assoluti di sensibilità vera, tangibile». Diego Tavano, procuratore di Edoardo Bove, lo scrive sui propri profili social. L’agente del calciatore ventiduenne ha ringraziato tutti per la solidarietà ricevuta e trasferita al suo assistito. «Grazie Roma, che lo ami e lo amerai per sempre, perché non dimentichi; perché non si può dimenticare chi suda in quel modo la maglia; grazie a tutti, perché mai avevo visto una cosa del genere, così tanto affetto dal mondo del calcio e non solo; grazie ad Emilio Butragueno che in nome e per conto del Real Madrid mi ha contattato in continuazione per sapere di Edo. Andiamo avanti, più forti di prima», ha detto. Ultimo aggiornamento sulle condizioni di Bove: il giocatore ha trascorso una notte tranquilla presso il Reparto di Terapia intensiva. Forza Edo.

«Taranto, parliamone di più!»

Massimo Lopez sui social promuove a pieni voti la Città dei Due mari

«Bella la Puglia, ma del capoluogo ionico si parla sempre colpevolmente sempre poco, invece…». Bellezze esposte a vista: Lungomare, Castello aragonese, Colonne doriche, Ponte girevole, ipogei, i Delfini a portata d’imbarcazione, il Museo archeologico nazionale e gli Ori di Taranto. Lo spettacolo “Dove eravamo rimasti” con il collega Tullio Solenghi, il ricordo di Anna Marchesini

 

Adesso un po’ meno. Ma c’è stato un periodo, piuttosto lungo, in cui Massimo Lopez, uno degli artefici del successo di uno dei gruppi comici italiani più amati, Lopez-Solenghi-Marchesini, in estate eleggeva a “buen retiro” proprio la costa tarantina. Da Lido Silvana a San Pietro in Bevagna era un continuo avvistarlo, per giorni. Lui ci scherzava sopra, quando un giornalista di una tv piuttosto che della carta stampata, gli chiedeva di rilasciare un’intervista, anche una sola battuta. E Massimo, persona educata, gentile, provava a declinare. Concedeva le riprese, purché non insistite, poi riprendeva il relax in salsa tarantina. Non è pertanto una considerazione che ci spiazza quella che l’attore, nei giorni scorsi a Taranto, insieme a Tullio Solenghi, per una delle repliche del fortunatissimo “Dove eravamo rimasti”, rilascia ad uno dei tanti social in circolazione.  

Infatti, sul suo profilo Instagram l’artista di origine marchigiana, ma romano a tutti gli effetti, si dice entusiasta dell’accoglienza riservata a lui e a Tullio Solenghi a Bari, Foggia, Lecce e Taranto. Lopez rivolgendosi ai suoi follower pone l’accento proprio sul capoluogo ionico, dopo una breve premessa: «Devo dirvi una cosa: quest’ultimo giro teatrale della Puglia è stato fantastico: accoglienza meravigliosa ovunque, a Bari, Foggia, Lecce, a Taranto: città una più bella dell’altra, ma a Taranto abbiamo ricevuto un affetto davvero speciale dal pubblico; di questa città, e non lo dico per piaggeria, si parla sempre troppo poco». Parola di Massimo Lopez, che chiosa: «Quindi questa Puglia bisogna frequentarla un po’ di più».

 

Foto Taranto Capitale di Mare

 

TARANTO, LA PUGLIA…

Ovviamente, non solo i pugliesi, o i tarantini, beneficiati da tanto affetto inatteso, sottoscrivono, invadono il suo profilo condividendo le bellezze del luogo, di una città, Taranto, di cui per tanti anni, anche a sproposito, si è parlato solo di un’industria inquinata e inquinante. Quando le bellezze della Città dei due mari, sono esposte a vista: il Lungomare, il Castello aragonese, le Colonne doriche, il Ponte girevole, gli ipogei, i Delfini a portata d’imbarcazione, il Museo archeologico nazionale che custodisce gli Ori di Taranto, i tesori della Magna Grecia. Il MArTa (acronimo di Museo archeologico di Taranto) è uno dei musei più visitati e attivi con numerose iniziative a settimana mai registrate in altri siti custodi della storia del nostro Paese.

Ma torniamo per qualche istante e Lopez e Solenghi, i due attori che hanno ripreso un repertorio infinito, a suon di sketch, brani musicali e contributi video. Perfino una lectio magistralis, trovandosi in una città che sprizza cultura millenaria, con un Lopez “strappa-applausi” che per qualche minuto veste i panni del critico Vittorio Sgarbi, a seguire un omaggio all’avanspettacolo, un divertente confronto tra il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e Papa Bergoglio, e un momento musicale toccante, dedicato ad una indimenticabile e sfortunata Anna Marchesini.

 

Foto Profilo Facebook

 

…SPETTACOLO INFINITO

«Filo conduttore dello spettacolo – hanno spiegato i due comici –  è una chiacchierata tra amici, una sorta di famiglia allargata che collega i vari momenti di spettacolo». “Dove eravate rimasti”, domanda. «A casa, come tutti, per tanto di quel tempo a causa della pandemia: starcene lì, avevre una sensazione di impotenza ci ha fatto venire prima una voglia di reagire, poi una grande voglia di ricominciare: “Massimo Lopez e Tullio Solenghi Show”, il nostro spettacolo precedente, era andato così bene che volevamo tornare con uno show che avesse uno stile simile sotto certi aspetti, ma con contenuti nuovi, così ci siamo messi al lavoro».

Massimo Lopez e Tullio Solenghi, lo spettacolo in due battute. «Personaggi nuovi, il duetto Mattarella-Bergoglio, la lectio magistralis di Sgarbi, un omaggio all’avanspettacolo, la rivisitazione delle favole con il “politicamente corretto” o “scorretto” cui ci siamo abituati ma che riusciamo a ribaltare scatenando risate e complicità del pubblico, e poi un atto dovuto, fatto con cuore e grande emozione: un momento musicale dedicato alla nostra indimenticabile Anna Marchesini: divertimento ed emozione insieme, e questo il pubblico lo ha avvertito in pieno: ce ne siamo accorti e ce ne accorgiamo ogni sera, dalle risate, dagli applausi, ma anche dai silenzi che raccontano la grande emozione». 

«Questa non è vita…»

Corriere, licenziato perché lamentava turni massacranti

Centocinquanta pacchi da consegnare in sei ore. Sarebbe stata questa la media denunciata da un giovane che svolgeva anche attività sindacale. «…Abbiamo un codice di condotta rigoroso», ha risposto Amazon, che ha affidato lavoro in subappalto a una ditta della quale faceva parte l’operatore oggi senza lavoro. «Forse il voler far rispettare ritmi più umani ha infastidito qualcuno…»

 

Dura la vita del corriere. Chiedetelo a Valter, uno dei tanti ragazzi che svolge questo lavoro di professione. E quando l’attività è, per giunta, in subappalto, l’affare si complica. Vero. Perché la storia occorsa a Valter è tutta da raccontare, scapperebbe da ridere, sarebbe sceneggiatura utile per quelle comiche di un tempo dal primo Charlot all’ultimo Benny Hill, per intenderci quei video veloci sempre cliccatissimi su Youtube.

Invece, c’è poco da ridere, specie quando di mezzo c’è un posto di lavoro, una famiglia, un giovane, che di quello stipendio – piccolo o grande che sia – ha bisogno. La storia del giovane dipendente del quale scriviamo è apparsa in questi giorni sul “Corriere fiorentino” (Corriere della sera) a firma di Jacopo Storni, puntuale cronista che ha raccontato nei dettagli la versione di Valter e, come è giusto che fosse, anche la posizione di Amazon (nella vicenda società che ha assegnato le consegne in subappalto a una ditta). Al colosso americano, quanto spiegato da Valter, non risulterebbe: «…Abbiamo un codice di condotta rigoroso».

 

 

GRAZIE, “CORRIERE”

Ma entriamo all’interno della storia, grazie al “Corriere”, che fornisce subito i numeri: centocinquanta pacchi al giorno da consegnare in circa sei ore di lavoro. Detto così, sarebbe una media di due minuti e mezzo per ciascuna consegna. E tutto questo, nonostante il traffico – scrive il quotidiano – le difficoltà di portare a termine una consegna qualora i cittadini non aprano immediatamente il portone; nonostante il carico e scarico talvolta di mezzi pesanti; nonostante le pause pranzo (che spesso vengono saltate) e i momenti per andare in bagno. Insomma, secondo quanto raccontato dal giovane che svolge mansioni da corriere, praticamente un delirio.

«Ritmi insostenibili», ha spiegato Valter. Con quell’andazzo, è capitato che il giovane tornasse al magazzino con alcuni pacchi che non avevano raggiunto il destinatario. Secondo prassi, il dipendente è stato più volte richiamato, prima ripreso con sanzioni disciplinari, successivamente sospeso e, infine, licenziato.

 

 

«SENZA LAVORO»

«Sono rimasto senza lavoro – l’ipotesi resa al giornalista che lo ha intervistato – perché non mi limito a svolgere le mie mansioni di corriere, ma faccio anche il sindacalista e lotto per migliorare le condizioni di lavoro dei colleghi e di chi opera nella logistica come me; un’attività che non piace alla mia azienda, che dopo tre anni mi ha licenziato».

«Per portare tutti i pacchi – ha aggiunto – lavoriamo spesso più ore di quelle previste dal contratto, ma succede a volte che non ce la facciamo a portare tutti i plichi a destinazione; sono molto deluso da questa esperienza professionale, noi persone veniamo trattati come numeri, questo è un lavoro disumanizzante».

Ergastolo a Impagnatiello

Omicidio di Giulia Tramontano, la sentenza lunedì 25 novembre

La condanna in concomitanza con la “Giornata internazionale contro la violenza sulle donne”. «Giulia, ventinove anni, firmò sua condanna a morte quando disse ad Alessandro che era incinta», ha affermato la pm nella sua requisitoria. Trentasette coltellate, undici in punti vitali, le aveva dato fuoco, chiusa nel bagagliaio dell’auto. Voleva far sparire completamente le tracce della vittima e del piccolo che portava in grembo da sette mesi

 

Alessandro Impagnatiello, trentuno anni, condannato all’ergastolo e all’isolamento diurno per l’omicidio della compagna Giulia Tramontano, ventinove anni, e del piccolo Thiago, il bambino che la donna portava in grembo da sette mesi. Il piccolo non saprà mai cosa fosse venire al mondo. Se ci sentisse, potremmo testimoniargli che il genere umano non è come quell’uomo che lo avrebbe generato, a questo punto non sappiamo con quanto amore, vista la fine che ha riservato a lui e alla mamma, “colpevole” di volerti e vederti crescere, anche contro la volontà di quel papà che non avresti meritato.

Sarebbe stato più naturale che Impagnatiello avesse fatto un passo indietro, rispettando la decisione della donna, assumendosi le sue responsabilità. E, invece, no. Lei e il piccolo che sarebbe arrivato due mesi dopo, costituivano un ostacolo, grave, ai quei progetti che, francamente, non osiamo immaginare dove dovessero condurlo. Il trentunenne, secondo le accuse della pm, Alessia Menegazzo, avrebbe agito con crudeltà, sferrando trentasette coltellate, di cui undici inferte in punti vitali. E, il tutto, con premeditazione.

 

 

ALESSANDRO, MANIPOLATORE

L’ex barman avrebbe portato avanti il piano per eliminare Giulia e Thiago, il nascituro che l’omicida mesi prima di portare a compimento il “duplice” omicidio, stava considerando un ostacolo alla sua realizzazione personale. Così l’Agenzia ADN Kronos aveva descritto, con grande puntualità, la vigilia della sentenza poi giunta ore dopo, lunedì 25 novembre, proprio in concomitanza con la “Giornata internazionale contro la violenza sulle donne”.

Il processo, che conferma l’ergastolo ad Impagnatiello, iniziato lo scorso gennaio era durato tredici udienze. Federica Zaniboni, giornalista dell’Agenzia Ansa, nella sua cronaca scrive che «ascoltando le parole pronunciate dalla giudice Antonella Bertoja, presidente della Corte d’Assise di Milano, Impagnatiello resta impassibile, in piedi accanto ai suoi avvocati, dando il consenso questa volta ad essere ripreso dalle telecamere, con lo sguardo fisso davanti a sé e accennando uno sguardo duro, mentre viene portato via dagli agenti della Penitenziaria».

E’ stata la stessa pm a ripercorrere quel dolorosissimo percorso da film horror cominciato il 27 maggio dello scorso anno, quando Giulia, ventinove anni, incinta al settimo mese, viene ammazzata nell’appartamento di Senago, alle porte di Milano. La donna viene aggredita, uccisa subito, con violente coltellate assestate ovunque capitasse, sorpresa alle spalle e senza alcuna possibilità di difendersi.

 

 

PIANO DIABOLICO E SANGUINOSO

Non finisce così, Impagnatiello prova a completare il suo piano diabolico, cercando di bruciare il corpo della donna nella vasca da bagno. Poi lo trascina lungo le scale per nasconderlo in cantina. Una volta in garage, prova ancora a darle fuoco, pensando che un simile gesto possa far perdere ogni traccia della povera vittima. Nasconde il corpo di Giulia nel bagagliaio dell’auto, poi la abbandona in un anfratto dietro a dei box di viale Monterosa, a settecento metri da casa. I carabinieri hanno subito la percezione di come siano andate le cose. Non conoscono ancora i dettagli dei quali poi verranno a conoscenza, intanto lo sottopongono a un pressante interrogatorio.

Stando agli elementi acquisiti, il delitto avviene poche ore dopo che Impagnatiello ha incontrato l’altra sua donna (episodio che non è in stretta relazione con quanto accaduto). «Giulia ha firmato la sua condanna a morte quando ha comunicato all’imputato che aspettava un bambino, un figlio che Impagnatiello non ha mai voluto tanto che “mente, falsifica un certificato, nega che sia suo figlio anche dopo averlo ucciso”». Non è finita, il pm nella sua requisitoria aggiunge: «(Impagnatiello) stava già avvelenando da tempo Giulia e il suo bambino quando festeggiava con lei il baby shower». Quando il piano di ucciderla con il veleno non si concretizza, l’uomo cambia strategia, pensa di attribuire a Giulia “l’allontanamento volontario”: una sparizione, forse l’idea del suicidio.

 

 

DETTAGLI RACCAPRICCIANTI

La vicenda delittuosa potrebbe andare avanti con dettagli sconcertanti. Nella mente dell’omicida balena di tutto, purtroppo l’omicida non riesce a fermarsi prima di compiere l’assalto sconcertante, fatale che costa la vita alla povera Giulia.

«Non si tratta di vendetta, è prima di tutto giustizia», ha dichiarato la ministra per le Pari opportunità e la Famiglia, Eugenia Maria Roccella, sull’ergastolo inflitto ad Alessandro Impagnatiello per l’omicidio di Giulia Tramontano. «La lotta – ha proseguito – si articola sulle 3 P: proteggere, prevenire e perseguire; perché è importante che questi delitti non vengano sottovalutati ma considerati in tutta la loro gravità; non dare sufficiente centralità al reato vuol dire non dare centralità alla battaglia contro la violenza; anche quest’ultimo passaggio è necessario: oggi c’è stato l’ergastolo per l’assassino di Giulia Tramontano che è un caso di orrore; ogni femminicidio porta con sé una scia terribile di dolore».

«Reinserimento sociale, ecco cos’è»

Attraverso il lavoro e l’Otto per mille destinato alla Chiesa cattolica

A Cerignola inaugurata la fabbica di caramelle “Frik”. Per ora l’obiettivo è addolcire la Puglia, domani si vedrà. Tommaso, pasticciere, indica la strada da seguire, mentre Michele, ex panificatore, responsabile del lavoratorio esegue con i suoi compagni d’avventura. «Chi lavora qui spesso ha vissuto storie di esclusione», dice don Pasquale, direttore della Caritas pugliese. Destinatari ragazzi segnalati dall’Ufficio servizi sociali minori di Bari

 

Buone notizie dalla Puglia. Da Cerignola, nel Foggiano, a voler essere precisi. Una cittadina, a torto, spesso finita nell’occhio del ciclone per fatti di cronaca. Quando, invece, questo Comune si mostra virtuoso bruciando chiunque abbia solo in mento un progetto simile, è giusto parlarne. Anzi, farne un titolo – si diceva un tempo nei quotidiani – “a tutta pagina”. Cosa è ufficialmente accaduto appena qualche giorno fa? Ben, a Cerignola è nata una fabbrica di caramelle, con un indirizzo ben preciso: una piccola azienda per ragazzi con disagio sociale. Una fabbrica, per farla breve, anche se il processo ha richiesto tempo, resa possibile grazie ai fondi dell’Otto per mille destinati alla Chiesa cattolica. QAnche il nome delle caramelle ha il suo perché: si chiamano “Frik”, come “freak”, un inglesismo utilizzato per definire quanti erano ai margini, per scelta o perché posti all’angolo da una società che non faceva “prigionieri”. Il progetto si rivolge a giovani segnalati dai servizi sociali di Bari, offrendo loro un’opportunità di reinserimento sociale attraverso il lavoro.

 

 

DAL “DIRE”, FINALMENTE IL “FARE”

La fabbrica, ha riportato nei giorni scorsi l’Agenzia Ansa, è un progetto che ha come destinatari ragazzi segnalati dall’Ufficio servizi sociali minori di Bari che intraprenderanno percorsi di reinserimento sociale attraverso il lavoro. Fra quanti sono impegnati quotidianamente in questo straordinario progetto, in quanto di respiro sociale, c’è anche Michele, – segnala l’agenzia giornalistica – oggi responsabile del laboratorio, trentasei anni, trascorsi da panificatore. In questa nuova incoraggiante avventura, ha seguito (e seguirà ancora) i consigli di Tommaso, mastro pasticciere. Facendo seguito alle indicazioni di quest’ultimo, sicuramente Michele diventerà un vero esperto nella produzione di caramelle.

«È stato emozionante – dice Michele – abbiamo avuto subito la sensazione che questa caramella rappresentasse una passione che spero diventi il mio futuro e quello di tutti i ragazzi che lavorano con me». «Formare dei ragazzi che qui riescono a riprodurre le mie idee e i miei desideri – dice a sua volta Tommaso – è bello perché vedo un mio sogno realizzato da loro». «Chi lavora qui spesso ha vissuto storie di esclusione sociale. Noi offriamo loro una prospettiva diversa, permettendo di riscattarsi attraverso il lavoro», aggiunge, invece, don Pasquale, direttore della Caritas Puglia.

 

 

TENTAZIONE ALLO ZUCCHERO

Le caramelle, preparate con oli essenziali e zucchero, includono gelatina nelle varianti a pastiglia. A partire dai prossimi giorni, i prodotti saranno disponibili in quattro punti vendita della stessa Cerignola, con l’obiettivo di espandersi presto in tutta la Puglia e, perché no, oltre i confini della regione. «Chi lavora qui – riprende don Pasquale – spesso ha vissuto storie di esclusione sociale: noi offriamo loro una prospettiva diversa, permettendo di riscattarsi attraverso il lavoro». «Il nostro compito – il punto di vista di don Marco, direttore di Caritas Italia – è seminare speranza, dimostrando concretamente che una vita diversa è possibile. Ridare dignità alle persone attraverso il lavoro è il primo passo».

Infine l’intervento del vescovo di Cerignola, monsignor Fabio Ciollaro: «Che questa esperienza possa aiutarli a crescere professionalmente e a credere in loro stessi». La fabbrica di caramelle Frik non è solo un’impresa: è un segnale concreto di rinascita, una dimostrazione di come il lavoro possa trasformare vite e offrire un futuro migliore.

Russia, andata e ritorno

Un italiano a San Pietroburgo, stregato da una città irresistibile

«Stavolta ho subito un controllo più rigoroso», confessa Antonio che ha vissuto un’esperienza inattesa.  «Colpa della guerra, ma è una vacanza alla quale non rinuncerei per niente al mondo; conosco perfettamente la lingua, so muovermi, ho amici e francamente staccare per un po’ con l’Italia e il mio lavoro, è utile e rigenerativo»

 

Antonio, Tonio per gli amici, un metro e novanta, fisico da body-guard, tanto che sembra sbucato da uno di quei film stile “Mission Impossible”, ha un’attività immobiliare che lo assorbe intere giornate. Per lui, come per quanti lavorano senza sosta, provare a ricaricare le batterie, una volta ogni tanto, crediamo sia cosa buona e giusta.

Tonio ha il bernoccolo per la Russia, innamorato com’è del Paese che in questo momento sta vivendo un conflitto diretto con l’Ucraina e, indirettamente, con buona parte di quei governi che sostengono la politica di Zelensky che ha condotto i suoi connazionali a dichiarare guerra al più potente vicino di casa. In mezzo, mille motivi, a cominciare da una politica che spesso si serve di pedine per condurre in porto strategie più articolate e che spesso hanno un tornaconto che poco giova, detto fuori dai denti, a Zelensky e alla stessa Ucraina.

Tonio, si diceva, ha quel chiodo fisso, è più forte di lui. Se non va una volta l’anno, almeno un paio di settimane a San Pietroburgo, città dal fascino irresistibile, non è soddisfatto. “Non mi rilasso – dice – nonostante il viaggio, lungo, ma che metto in conto, staccando da un lavoro che amo – e questo i miei collaboratori lo sanno – se non mi dedico due settimane secche l’anno: resetto tutto, mi ricampiono, rifaccio le valigie e torno in Italia”.

 

San Pietroburgo

 

CHIAMALO “CONTRATTEMPO”…

Questa volta, però, Tonio ha vissuto un contrattempo. «Non nascondo – racconta – tre ore di disagio, la polizia russa al confine che controlla e ricontrolla gli stessi documenti con i quali ho fatto viaggi in giro per il mondo, in particolare facendo tappa proprio in Russia, destinazione San Pietroburgo, una città che mi è entrata subito nel cuore: ha presente quando si dice amore a prima vista? Ecco, mi sono innamorato talmente tanto di “Sanpie’”, da lanciare una sfida a me stesso, che di mestiere faccio il motivatore: voglio imparare il russo».

Imparare bene una lingua ti permette di muoverti liberamente in un ambito nel quale saresti considerato un turista. «Volevo conoscere San Pietroburgo, la gente, per due settimane l’anno sentirmi uno del posto, ma solo per isolarmi in modo sano, ecco “staccare”, da un’attività, quella di agente immobiliare, che mi assorbe – per come la vivo io – una intera giornata».

 

Evento musicale in Peter in una art gallery

 

«CONOSCO IL RUSSO…»

E veniamo al dunque, anche se in coda a quattro confidenze. Il russo, la lingua, che mai come in questo caso, è provvidenziale. «Sì, fermato per tre ore, i documenti di ingresso e uscita dalla Russia, vengono praticamente setacciati, scansionati: evidentemente il mio fisico e un aspetto “ultrà” – il tutto con le debite proporzioni – ha indotto il personale di frontiera ad avere nei miei confronti un certo riguardo; per fortuna parlo il russo in modo fluente, non corro il rischio di essere frainteso; non ho nemmeno bisogno di fare ricorso a modalità nelle quali gli italiani sono campioni olimpionici, i gesti: mi faccio perfettamente comprendere con le parole; tiro fuori il cellulare, mostro vecchie e nuove fotografie, pose inequivocabili per uno che ama questo Paese, proprio come fosse una seconda casa».

Tre ore vissute in tensione, ipotizziamo. «I primi momenti mi balenavano nella mente pensieri sui quali mai, e dico mai, mi creda, mi ero soffermato, perché andare in Russia mi sembrava la cosa più normale, e francamente bella, tanto da viverla come una formalità; mi sono rilassato in un baleno, quando con le autorità abbiamo cominciato a scambiarci idee di carattere politico, ho posto nelle loro mani perfino il mio cellulare perché lo controllassero: non c’è stato bisogno, non era diffidenza la loro, ma solo uno di quei controlli che svolgono su un turista su dieci: stavolta è capitato a me».

 

Caffé sulla Nevsky Prospekt

 

«…“PETER”, TORNO PRESTO»

Tornerà a San Pietroburgo, Tonio? «Fra un anno, sicuramente, forse prima, “Peter” – come affettuosamente chiamano la loro città da quelle parti – è un posto nel quale vivrei tutta la vita, se non avessi un’attività bene avviata e sulla quale ho investito tempo e denaro, e collaboratori di cui mi fido ciecamente; insomma, per farla beve, il russo mi ha semplificato la vita: penso a un italiano con il mio stesso aspetto, che si arrampica sulle parole, non riesce ad esprimersi e più cerca di spiegarsi più si incarta: un disastro, credo lo avrebbero rispedito a casa. Invece, di tornare indietro non volevo saperne, quelle due settimane di vacanze me le ero meritate e volevo valorizzarle il più possibile. E così, fortunatamente, è stato…».

Tre ore vissute sul confine, una storia che si può raccontare, alla faccia di tutti i film, le spy story che in molti si fanno quando pensano ai Paesi dell’Est. Certo, meglio condirle con un lieto fine queste storie, che non parlando di “esperienza che lascia il segno”. Se Tonio tornerà a San Pietroburgo, nonostante si respiri un’aria che non è proprio la stessa di uno, due anni fa, metterà nel conto che si possa registrare un contrattempo. Del resto, la Russia è un Paese di frontiera, minacciato da “venti di guerra”, ed è ancora tanto che si possa visitare da turista ed avere da personale di frontiera dopo un legittimo controllo e “Buona permanenza nel nostro Paese”, che ci rifiutiamo di scrivere in cirillico. Ci faremo aiutare da Tonio, alla prossima occasione.

Otto razzi contro base italiana in Libano

Nessun ferito fra i nostri militari, quattro fra i caschi blu ghanesi

“Inammissibile e inaccettabile che si spari contro il nostro contingente che è sul posto ad impegnarsi perché la situazione non precipiti”, ha detto Antonio Tajani, ministro degli Esteri. Intanto l’Argentina ritira i suoi militari dalla missione di pace

 

Ci uniamo allo sdegno del governo italiano per gli otto razzi lanciati da Hezbollah e che hanno colpito la base italiana Unifil (United Nations Interim Force In Lebanon), la missione di interforze con il compito di verificare il ritiro delle truppe israeliane per ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Ma anche con il compito di assistere il governo libanese a ripristinare la sua effettiva autorità nella zona. Per fortuna, i razzi in questione non hanno provocato alcun ferito fra gli italiani.

Allo stesso tempo, però, Unifil ha comunicato che quattro caschi blu ghanesi sono stati feriti da un razzo lanciato contro la loro base a Ramia molto probabilmente da quanti impegnati in attività non statali libanesi.

Detto che bene ha fatto il governo ad alzare il tono della voce, crediamo che a dichiarazioni puntuali, di sdegno, per essere presi di mira per una missione di pace è quanto di più pericoloso possano fare quanti, invece, tengono a cuore di creare uno stato di confusione, occorre anche mandare messaggi inequivocabili: contro ogni stupida guerra che semina morti, vittime e provoca disagi gravi che una vita non basterà per porvi rimedio.

 

 

COSA E’ ACCADUTO

Ma cosa è accaduto secondo quanto riportato dalle agenzie e dai notiziari italiani e internazionali. E’ notizia di ieri che otto razzi da 107 millimetri hanno colpito il quartier generale del contingente italiano nel sud del Libano. I razzi, specificano le fonti di informazione, usando termini militari hanno “impattato” su aree all’aperto e sul magazzino ricambi della base dove non era presente alcun soldato. Nessun ferito, dunque. Al momento della diffusione della notizia e delle dichiarazioni del ministro della Difesa Guido Crosetto (“Intollerabile che le basi dell’Unifil vengano colpite”) e del ministro degli Esteri Antonio Tajani (“Inammissibile che si spari contro il contingente Unifil, truppe che hanno garantito anche la sicurezza di Hezbollah”).

Se non ci sono feriti italiani è solo per pura fortuna. Infatti, alla luce del bollettino militare diramato alle agenzie, i caschi blu e le strutture di Unifil sono stati presi di mira in tre diversi attacchi nel sud del Libano, con quattro peacekeeper ghanesi feriti. Il portavoce dell’Idf (Israel Defense Forces) ha tenuto a specificare all’agenzia Ansa che “non è stato l’esercito israeliano a colpire le forze di pace Unifil nel Libano meridionale”.

 

 

ARGENTINA, ADIOS

Concomitante o meno, alle dichiarazioni militari e politiche, se ne aggiunge una terza. A farla pervenire alla stessa Unifil e agli organi di informazione, è il governo argentino. L’Argentina, infatti, ha intanto ha fatto sapere in via formale all’Unifil il ritiro dei suoi soldati dalla missione di pace delle Nazioni Unite in Libano. E’ stato il portavoce di Unifil, a comunicare che l’Argentina ha chiesto ai suoi ufficiali di rientrare. Non sono ancora chiare le motivazioni che hanno portato a questo annuncio, un chiarimento che probabilmente arriverà nelle prossime ore. Al momento c’è la concomitanza delle due azioni, attacco e disimpegno argentino, in quanto accaduto ieri.

Riportato con la massima attenzione quanto diffuso dalle agenzie di stampa, in particolare dall’Ansa e da Adn Kronos, sempre nelle prossime ore attendiamo un’accelerazione sulla politica di pace, prima che proseguano attacchi indiscriminati da qualsiasi parte avvengano, vuoi per dare segnali di forza, vuoi per provocare confusione fra gli attori che dopo le elzioni americane si stanno impegnando a riportare la pace. Una missione non semplice, anzi, complicata e, purtroppo, sanguinosa, anche alla luce di quanto accaduto ieri in un episodio che fortunatamente non ha provocato vittime.

«Alla faccia dell’algoritmo!»

Papa Francesco nella sua ultima enciclica cita i panzerotti di casa nostra

Una delle tante leccornie pugliesi finisce nell’enciclica Dilexit nos (Ci ha amati). «L’intelligenza artificiale non potrà mai ispirarsi a una forchetta che fa i bordi a una simile bontà»

 

Che Papa Francesco fosse ingolosito dalla cucina pugliese, non ci era affatto sfuggito. Nelle sue visite nella nostra regione aveva avuto modo di lasciarsi quasi “tentare” nel commettere peccati di gola. Lo stesso pontefice aveva giustificato questa sua tentazione come “debolezza umana”. «Anche il Papa ha le sue debolezze, in fatto di cucina: in Vaticano mi mettono a dieta, come fossi assistito da un famacista, ma quando posso eludere una sorveglianza e fare rientrare l’assaggio delle bontà della cucina pugliese nel protocollo, lo faccio un po’ anche apposta ed è proprio lì che ne approfitto: per tornare a fare dieta c’è sempre tempo».

E devono essergli rimasti talmente impressi quei panzerotti, tanto che alla prima occasione – ma ci piace pensare che in Vaticano avesse già chiesto di procurarsi una ricetta – ecco che quella pallina di pasta lievitata, prima lavorata, poi stesa e, infine, riempita di bontà, dalla mozzarella al pomodoro, viene citata. E non durante una normale chiacchierata sulla cucina in uso nel Tacco d’Italia, ma addirittura nell’Enciclica. Parole registrate e riportate in mezzo mondo, a partire dalle agenzie, a cominciare da quella italiana più autorevole, l’Ansa, proseguendo con Repubblica, fino ad interessare il più autorevole organo d’informazione del settore gastronomico come Il Gambero Rosso.

 

 

MICA MALE COME INTRODUZIONE…

Anche l’incipit è degno di una così alta celebrazione. Lo spunto, al nostro Pontefice, glielo dà la tanto “celebrata” Intelligenza artificiale a cui la Chiesa, evidentemente, è contraria. I panzerotti come metafora, dunque. «Ciò che nessun algoritmo potrà mai albergare sarà, ad esempio – dice Papa Francesco – quel momento dell’infanzia che si ricorda con tenerezza e che continua a succedere in ogni angolo del pianeta. Penso all’uso della forchetta per sigillare i bordi di quei panzerotti fatti in casa con le nostre mamme o nonne…».

È questo passaggio della nuova enciclica di Papa Francesco, “Dilexit nos” (“Ci ha amati”, l’essenza dell’amore di Dio), in cui è citata una delle più note specialità gastronomiche pugliesi. Il Pontefice fa riferimento ai panzerotti nella parte, si diceva, dedicata alla intelligenza artificiale. Sigillare il panzerotto con la forchetta è per Bergoglio «quel momento di apprendistato culinario, a metà strada tra il gioco e l’età adulta, in cui si assume la responsabilità del lavoro per aiutare l’altro; una gestualità che non potrà mai stare tra gli algoritmi, perché questa – in buona sostanza – si appoggia sulla tenerezza che si conserva nei ricordi del cuore».

 

 

…E NEMMENO LA CHIUSURA

«L’immagine di Papa Francesco con un piumino bianco alla moda – scrive Il Gambero Rosso – ha fatto il giro del mondo. Era l’ennesimo falso ad opera dell’Intelligenza artificiale, che torna protagonista nel documento indirizzato dal Papa ai vescovi di tutto il mondo: «Sull’amore umano e divino del cuore di Gesù Cristo», dove sottolinea la necessità, «in questo mondo liquido, di parlare nuovamente del cuore».

Papa Francesco evidenzia i limiti dell’IA. «Nell’era dell’intelligenza artificiale – dice Papa Francesco e il portale Gambero Rosso lo riporta – non possiamo dimenticare che per salvare l’umano sono necessari la poesia e l’amore; ciò che nessun algoritmo potrà mai albergare sarà, ad esempio, quel momento dell’infanzia che si ricorda con tenerezza e che, malgrado il passare degli anni, continua a succedere in ogni angolo del pianeta. Penso all’uso della forchetta per sigillare i bordi di quei panzerotti fatti in casa con le nostre mamme o nonne. È quel momento di apprendistato culinario, a metà strada tra il gioco e l’età adulta, in cui si assume la responsabilità del lavoro per aiutare l’altro». Panzerotti pugliesi fritti, pomodoro e mozzarella e così sia. Senza voler allegramente mescolare sacro con profano, beninteso.