Ben, le biciclette e un futuro da riparare (1^ parte)
Sono arrivato al CAS di Modugno alle 18,30 di sabato. In realtà avevo detto a Fabio, un operatore storico della struttura che mi ha fatto da gancio e mediatore linguistico, che sarei arrivato nel primo pomeriggio per incontrare Ben, un ragazzo nigeriano di 21 anni che mi aveva incuriosito per il fatto di averlo sempre visto adoperarsi ad aggiustare biciclette durante le mie visite al Centro.
Ho avuto una percezione strana appena entrato: Fabio era occupato con le cose che fanno gli operatori e io, nell’attesa che finisse, ho potuto godere di una vitalità che non avevo mai riscontrato, forse anche a causa dei miei orari: un torneo di ping pong auto organizzato, un folto gruppo di ospiti intenti a seguire in televisione le partite di calcio e, in disparte ma nella stessa sala dedicata alle attività, quattro ragazzi seduti ad un tavolo ripetevano le lezioni di lingua italiana.
Fuori, entrando nella struttura, avevo incontrato il solito gruppo di appassionati del gioco della dama.
Sui piani, le stanze era quasi totalmente vuote, fatto che mi ha indotto alla riflessione che finalmente c’è chi vive il territorio e chi ha trovato i suoi spazi in struttura.
Fabio ha terminato le sue cose e mi presenta Ben, che aspetta da un bel po’ senza neanche sapere in realtà cosa dovessimo fare insieme. Tanto è vero che si è tirato a lucido a differenza mia che ho grandi problemi a rinunciare a scarpe da ginnastica e maglietta.
Fatta una valutazione della situazione nel Centro e considerata la presenza di altri operatori, propongo a Ben e Fabio di spostarci in un posto più tranquillo per raccogliere la sua storia, a poche centinaia di metri dalla struttura. Ben non mi conosce ma si fida di Fabio e accetta.
Entrati in macchina per raggiungere il bar più vicino, io e Fabio parliamo delle difficoltà che incombono sulle nostre vite e, nel contempo, guardo dallo specchietto retrovisore il volto di Ben intento a cercare di capire cosa ci stessimo dicendo.
“Tranquillo Ben – dice Fabio girandosi verso di lui – non ti portiamo al patibolo!”.
Ridono insieme. Io non capisco e Fabio traduce a me e Ben ride!
Finalmente siamo seduti al tavolo di un bar e chiedo a Fabio di spiegare a Ben il senso di questa intervista e, soprattutto, di spiegarli che dalle storie che raccogliamo vogliamo trarre spunti, idee, per costruire progetti da realizzare insieme.
Ma anche arricchirci dalle loro storie, sapere, conoscere. Allora, iniziamo da lui dicendogli che non mi interessa sapere come è arrivato in Italia perché trafficanti e rotte le conosciamo. Voglio che mi dica qualcosa che non so e perché ha lasciato il suo Paese.
“Ufficialmente sono partito dalla Nigeria, in realtà sono scappato da una Regione della Nigeria che si chiama Biafra, che non è lo Stato del Biafra, ma una Regione che combatte da sempre per l’indipendenza dalla Nigeria. Non sono scappato per motivi politici ma per una questione religiosa anche difficile da spiegare. Mio padre era a Capo di un gruppo religioso che praticava una fede che posso definire come una ramificazione del woodoo, una pratica materialista, credevano che gli alberi, le piante, gli oggetti avessero un anima. Io sono cresciuto, al contrario, seguendo il cristianesimo. Ma, dopo la morte di mio padre, i suoi seguaci sono venuti a dirmi che il suo successore dovevo essere io. Non me la sono sentita e l’unica soluzione era andare via.”
Ben ha studiato fino alle scuole secondarie con indirizzo scientifico nel suo Paese e lavorava nel settore del’edilizia come piastrellista.
Parlando del suo viaggio verso l’Italia, gli chiedo solo di sapere se in Libia gli è capitato di essere rinchiuso in un campo o in un carcere: “No – mi risponde – una sola volta la polizia ha tentato di prendermi ma sono riuscito a scappare. Ho sentito parlare dei campi e di come trattano le persone che arrestano. A me non è capitato nonostante ho lavorato in Libia per 5 mesi come muratore prima di arrivare in Italia”.
I mezzi e i modi sono quelli già raccontati più volte. Ripeto a Ben che, nonostante le cose interessanti che ha raccontato il nostro intento è diverso, è quello di cercare di costruire opportunità, canali di inclusione, passare dall’accoglienza alla convivenza.
Mentre Fabio traduce, Ben è stupito, perplesso.
Capita la difficoltà, gli pongo una domanda diretta: ”Ho chiesto di parlare con te perché ti ho visto spesso aggiustare biciclette e mi sono chiesto se questo non si possa trasformare in un servizio accessibile a tutti”.
“Ho iniziato ad aggiustare le biciclette qui in Italia, nel mio Paese non l’ho mai fatto. Mi sono guardato intorno e ho visto che tutti usano la bicicletta e ho pensato che con le mie competenze avrei potuto aggiustare biciclette per racimolare un po’ di soldi. Così è iniziata questa esperienza e ora vengono tutti da me”.