Anche il sole si spegne
La terra intorno a Mosul è cosparsa di mine, ordigni micidiali che rappresentano un rischio serio per chi cerca di entrare per liberare la città e chi cerca di fuggire. Scappare adesso costa di più. I cecchini dell’ISIS sono appostati nei punti strategici della città continuando a combattere una battaglia che sanno essere persa. Ma la resa non è nelle loro corde e questa battaglia per conquistare un territorio ormai devastato durerà ancora a lungo. Ma niente va lasciato al nemico! A Mosul il sole non sorge più. Le truppe del Califfato hanno bruciato i pozzi di petrolio e sembra essere sempre sera. Il sole si è spento. Una nube nera e tossica fa da cappa sulla città e su tutta la valle di Ninive. I bambini, i pochi rimasti, giocano per strada. In quei pochi spazi liberi dalle macerie. Le ONG presenti in quei territori riferiscono che “I bambini di notte hanno incubi, fanno fatica a dormire. I loro traumi sono gravissimi. Questa è una landa desolata, ricoperta di polvere, ma soprattutto di fumo. Entra nei polmoni, si appiccica agli occhi e rende difficoltosa la respirazione”. Fumo tossico! L’ISIS cerca di togliere al nemico ciò che più interessa: il petrolio. Una azione che aggiungerà morti ai civili già morti e che lascerà le sue tracce nel tempo. Perché così ragiona il Califfo: più vite consegni al tuo Dio, più sarai premiato: alla fine siederà alla destra del padre e farà il bagno in vasche piene di latte? I campi profughi allestiti dall’ONU contano già sessantamila persone. Se ne aspettano altre duecentomila. Chi è riuscito ad aggirare i check point jihadisti si è rifugiato nei villaggi. Siamo solo di fronte all’inizio di una emergenza umanitaria in una zona geo-politica che trova l’interesse delle grandi potenze occidentali solo nell’assetto economico e nella capacità di controllo politico di quelle aree. Aree, si! Perché non è più possibile parlare di Paesi, di Nazioni. Troppi gli interessi in campo e troppe le ambizioni sopite. Cambieranno i confini e bisognerà aggiornare le carte geografiche. Alla fine di un conflitto che all’apparenza e non si sa quando, sembrerà finito, sotto le ceneri resterà sempre acceso un mucchio di carboni ardenti pronti a ridare fiamma.
Ne è un esempio la Libia: su tutte le testate mondiali c’è un episodio ormai rubricato come lo “scontro della scimmia”. Il graffio di una scimmietta, di proprietà di un commerciante, ad una ragazza appartenente ad una tribù contrapposta a quella dell’ex Premier Gheddafi ha scatenato una guerra civile. Certo non è il graffio o lo strappo del velo il problema: ma l’occasione giusta per tentare di appropriarsi del controllo delle strade che conducono al confine con il Ciad e il provento che deriva da contrabbando, droga e armi. E soprattutto dal traffico di migranti provenienti dall’Africa sub sahariana nei punti di imbarco verso l’Italia.
Il graffio della scimmia, in un Paese dove le scimmie sono animali domestici, ha già registrato ventuno morti e sessanta feriti.
Al tradizionale traffico di armi e droga si è aggiunto un altro proficuo mercato fatto di donne, bambini, anziani. Persone, traffico di vite umane. Per gestire questo business si fanno anche le guerre.