Ibrahim, diciannove anni, arriva dal Sudan
«Diffido di chiunque, nel mio Paese ti tradiscono, ti sparano addosso, quelli che un giorno sono amici, all’indomani sono i tuoi peggiori nemici». La fuga, la Libia, i campi, chiuso in una stalla per mesi. «Finalmente la libertà, l’imbarcazione, il mare, una nave italiana a soccorrere me e altre decine di miei connazionali»
«Voglio mi capiate, non ce l’ho con voi, ma ho una paura matta di qualsiasi cosa: vengo da un Paese, il Sudan, dove il cibo giornaliero è proiettili e pane!». Il pane scarseggia, dunque giù spari, a raffica. Due milioni di morti. Un trattato di pace firmato anni fa, ma sostanzialmente appeso a un filo, agli umori della piazza. Dei villaggi, soprattutto di militari e civili. «Un giorno stanno insieme, un altro giorno si sparano addosso, si cercano, si dichiarano guerra!», dice Ibrahim, diciannove anni, musulmano. Le braccia magre, il volto scavato. Ibrahim riflette prima di farci il suo nome, ci sfiora il dubbio che sia quello vero. Ci interessa il suo vissuto, conoscere la sua storia. Purtroppo anche questa fatta di dramma, disperazione, fuga da un clima di guerra, l’arrivo sulle coste italiane lo scorso 11 luglio insieme a connazionali e altri nordafricani. Soulemane, guineano, parla arabo e francese, traduce per Allahssen, che infine spiega in italiano.
Sudan, focolai ovunque. Paga chi ha fame, non ha soldi per comprarsi da campare. «Se avessi avuto denaro non avrei rischiato la fame, così l’intenzione di fuggire si è fatta largo: quattro milioni di mei connazionali sono scappati dal Sudan, non so se qui ne parlano, scrivono, lo dicono in televisione, ma credo fra fuga e morti sia quanto di peggio sia accaduto negli ultimi cinquant’anni!». Gli anni sono almeno sessanta, dieci anni dopo la Seconda guerra mondiale, in Sudan scoppia un conflitto civile. Non solo motivi religiosi, fra musulmani e cristiani. Anche qui, Nord e Sud se le danno di santa ragione: nella zona settentrionale fame e siccità, in quella meridionale petrolio e acqua in abbondanza. Una tregua, apparente alla fine degli anni Novanta. «Non è cambiato niente – dice Ibrahim – fossimo stati bene, ma anche a pane e acqua, non sarei mai andato via, non sarei scappato: ci saremmo accontentati anche delle briciole, lavorando, cosa che abbiamo sempre fatto a casa nostra».
«VOLEVO UNA VITA NORMALE, A PANE E ACQUA»
Ibrahim è fra i sudanesi che chiedono rispetto. «Volevo fare solo una vita normale, quando per “normale” da noi intendiamo pane e acqua, difficilmente altro, poi quando cominci a essere maltrattato, sfruttato, come fossi più di una bestia da soma, comincia a farti domande; la risposta è sempre una sola, un dilemma: o vai a combattere con i ribelli, ma non sai se sono quelli giusti – per un tozzo di pane si vendono, ti denunciano – oppure fuggi, finché hai fiato». Non c’è tanto da scegliere, Ibrahim mette alle spalle migliaia di chilometri. Il suo Paese è al centro fra Ciad, Etiopia, Zaire e Kenia. Confina con Egitto e Libia. «Scelgo di andare in Libia, l’Egitto è pericoloso, ma anche la mia scelta non è stata felice». Da una guerra civile a civili armati fino ai denti e quasi tollerati dal governo. «Finisco in una fattoria, le bestie erano accudite meglio di noi che saltavamo pasto e razioni di acqua: ci sono stato qualche mese, non distinguevo i giorni che passavano, a un certo punto non sapevo nemmeno chi fossi tanto sembravo carne da macello; un paio di miei connazionali che avevano tentato la fuga erano stati colpiti alla schiena, il nostro carceriere invece di soccorrerli, vedere se fossero ancora in vita, si rivolse a me e agli altri quasi con un gesto di sfida. “C’è qualche altro che vuole fare il furbo?”. I due stesi a terra, non meritavano attenzione, sepoltura. Restavano lì a ricordarci che a scappare c’era da rimetterci la vita!».
Una paura che prosegue. «Come si fa in tanti anni in cui hai visto gente vendersi al nemico, denunciare anche il falso, pur di stare meglio di te? Ringrazio l’Italia per l’accoglienza, io e i miei connazionali siamo qui da poco più di un mese, dobbiamo riprenderci da un terribile shock, anzi più di uno: la guerra civile, la fuga, fermati e fatti ostaggio in cambio di soldi!». Si guardano intorno quei ragazzi arrivati dal Sudan non senza qualche diffidenza.
«FINALMENTE IN ITALIA, FINE DI UN INCUBO»
«Da quando sono in Italia – dice Ibrahim – mi sono riappropriato di una certa serenità, non mi sono ripreso completamente: sono passato da essere uno che stava vivendo un incubo e non sapeva se il protagonista di quel brutto sogno fossi io stesso o un altro, a quello che sono in questo momento: uno che si rende conto di essere scappato da un conflitto civile e che da giorni non sente il fischio delle pallottole o le botte di carcerieri che ti picchiano senza motivo». Il motivo, sempre lo stesso: il denaro. «Ho lavorato per quattro, forse cinque mesi in un campo, la sera tornavo nella fattoria, chiuso insieme ad altri in una stalla; lavoravo sodo, mi avevano promesso che sarei andato via al più presto, invece i mesi passavano lentamente e il dolore alla schiena aumentava».
Infine, per Ibrahim, un raggio di speranza. «Un bel giorno mi dicono “Sei libero, corri, altrimenti ci ripensiamo!”. Corsi con tutta la forza che avevo, io scappavo muovendomi su un fianco e sull’altro, per evitare mi piantassero una palla nella schiena, e loro ridevano: per mettermi paura hanno perfino esploso dei colpi in aria!» .
Finalmente qualcuno si muove a compassione, vede Ibrahim seduto sul ciglio di un marciapiedi. Un camion pieno di sudafricani, qualche connazionale di Ibrahim. «Per uno in più non faranno storie, si sarà detto l’uomo alla guida del mezzo: finalmente il porto, l’imbarcazione, il mare; partiti di notte, il mattino dopo siamo stati soccorsi da una nave militare italiana: finalmente in Italia!».