Solomon, nigeriano, trentacinque anni

Padre assassinato da una gang di malfattori, nessun colpevole assicurato alla giustizia, fugge per evitare ritorsioni su moglie e figli. «Voglio riabbracciare i miei cari al più presto: voglio lavorare e non elemosinare. In Libia, giardiniere e addetto alle pulizie, ho racimolato i soldi per pagarmi il viaggio verso la libertà. Dopo sette ore di mare, una nave militare italiana…» 

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«Papà, aggredito e accoltellato, ci muore fra le braccia: gli assassini fuggono, la vita della mia famiglia cambia di colpo!». Non c’è tregua in certe zone della Nigeria, impera la legge del più forte, gang organizzate, e quella di balordi che di lavorare non vogliono saperne. Questa è la storia di Solomon, trentacinque anni, fisico da granatiere, uno che non si tira indietro di fronte a nulla. Di sani principi, non trascina giornate dall’alba al tramonto senza far niente. «Non chiederei mai l’elemosina – dice – non rientra nello schema educativo che mi hanno trasmesso mia madre e mio padre». Solomon, non una, ma due famiglie. Una patriarcale, con a capo il genitore, che si prenderà cura dei suoi figli fino a quando non gli viene inferto un colpo con una lama che lo strapperà per sempre all’amore dei figli; l’altra, la sua, moglie e quattro figli.

«Ho assistito mio padre – racconta – gravemente malato, come ho potuto, trascurando anche il mio lavoro di meccanico, riparavo moto; il mio genitore doveva essere seguito da mattina a sera, la malattia lo stava indebolendo, anche se riusciva a fare le cose più importanti in modo autonomo; avevo già perso mia madre per una malattia simile, una di quelle che dalle nostre parti sembrano incurabili e, invece, potrebbero essere debellate – esagero – con un’aspirina; è così che va dalle nostre parti, nonostante sia nato a Benin, una città, una capitale di uno Stato della Nigeria, Edo: non c’è assistenza sanitaria a sufficienza, così i casi estremi da malattie diventano numeri».

Famiglia numerosa. «Ho quattro fratelli, rimasti tutti a casa, papà aveva cura di noi tutti: non è che navigassimo nell’oro – altrimenti avremmo affrontato cure costose – ma vivevamo bene, per come può essere una vita serena dalle nostre parti; quando si è ammalato sono cominciati i problemi, lavoravo, ma dovevo stargli accanto, così trascuravo la mia attività di meccanico; poi il suo assassinio, gente senza scrupoli o qualcuno fuori controllo che sentenzia la tua condanna».

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Niente più genitori, resta la sua di famiglia. «Sono sposato – rivela Solomon – mia moglie e i miei quattro figli, due ragazzi e due ragazze, fra i quindici e i tre anni, sono rimasti a casa, a Benin: ci sentiamo quando è possibile, ogni volta è una forte emozione, sentirli tutti insieme è un’impresa: il costo di una telefonata è elevato, oggi non posso proprio permettermelo».

Motivo della fuga. «Le continue rappresaglie – spiega – fronteggiare gang prive di scrupoli e che agiscono con una polizia praticamente assente; reagiresti anche, ma poi rischieresti la tua vita e, soprattutto, quella dei tuoi cari; così sette mesi fa sono partito senza una precisa meta, l’obiettivo quello di provare a ricostruirmi altrove una vita decorosa e, appena possibile, tornare a casa, ma solo per riprendermi moglie e figli e portarli via con me»

L’arrivo in Libia. «In questo caso, posso ritenermi fortunato – osserva Solomon – non sono vittima di bande di sequestratori che ti prendono in ostaggio e ti svuotano le tasche, ti affidano a persone che ti danno lavoro e riscuotono i soldi al tuo posto; no, a me, nella sfortuna posso ritenermi fortunato: non mi tiro indietro quando c’è da prendere fra le mani attrezzi da lavoro; in Libia faccio di tutto: mi spendo nei campi, mi occupo di giardinaggio e pulizia; faccio di tutto per mettere da parte i soldi necessari per pagarmi il viaggio verso l’Europa; raggiungo una discreta somma e contatto, facendo molta attenzione agli interlocutori – le aggressioni sono all’ordine del giorno – qualcuno che mi metta su un gommone».
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Finalmente Solomon vede il mare, lacrime di gioia. «La vista di questa distesa azzurra – confessa – è il tuo senso di liberazione, pensi a quanto accaduto e cominci ad accarezzare un senso di riscatto e futuro insieme: quello che è stato, quello che potrebbe essere, con mia moglie e i miei figli».

Il trentacinquenne nigeriano è a un passo dal primo gradino verso il riscatto. «Arrivo in spiaggia, finalmente l’imbarcazione, un gommone che potrebbe ospitare trenta, quaranta persone: siamo invece in centocinquanta, ma anche qui fortunatamente non mi hanno truffato: mi hanno parlato di un viaggio verso l’Italia e così è fino a quel momento; salpiamo non senza difficoltà, spingiamo il gommone con l’acqua fino al petto e, infine, a bordo». Ci vuole poco a restituire sorriso e speranza a Solomon, saggio, maturo, un carattere plasmato con quanto visto nel suo Paese. Luck, fortuna, è una parola che a dispetto di quanto accadutogli, tira fuori alla prima occasione. Come è stato in Libia, così una volta imbarcato in quella “scatola di sardine”. «Fortuna, sì, dopo aver salpato ci troviamo in mare aperto, come se fosse una lotteria: cosa può accaderci? Solo sette ore di mare, quando una nave militare italiana ci avvista e ci viene incontro: sani e salvi, da due mesi sono in Italia, ospite di un Centro di accoglienza; voglio lavorare, studiare, frequentare uno di quei corsi di formazione, trovare una sistemazione, anche minima, per poter riabbracciare moglie e figli e ricominciare a vivere».