Il sogno di Evidence, nigeriano, venticinque anni
Una sorella uccisa a colpi di fucile sotto i suoi occhi. Pianto e disperazione, il desiderio di un lavoro da marinaio. «Viaggiare, sarebbe bello, come salvare miei connazionali da persecuzioni, botte e proiettili».
«Colpi di fucile nel mucchio, mia sorella stramazza al suolo, davanti ai miei occhi!». Evidence, venticinque anni, nigeriano, cristiano, dallo scorso gennaio in Italia, ha gli occhi rossi. Piange. In modo composto. Quelle immagini, però, non le dimenticherà mai. Sono una ferita che non si rimarginerà mai. Sua sorella, unica a seguirlo nella fuga verso la libertà, in quel momento era la sua famiglia. A casa, ancora due sorelle, due fratelli, la mamma. Papà non c’è più, una morte prematura lo ha sottratto all’affetto dei suoi cari.
Dunque, la ragazza, il mucchio. «Il mucchio – spiega Evidence – eravamo tutti noi, nazionalità diverse, scopo identico, fuggire da un regime restrittivo e dalla fame, tanta; accerchiati ci agitavamo, in cerca di una via di fuga, perché quando i militari, ma anche ragazzini, di solito armati di fucili e pistole, ti fermano, non sai mai come andrà a finire: l’unica strada che impari a conoscere è scappare, cuore in gola, fino a perdere il fiato».
Una gragnuola di colpi. La sorella di Evidence si piega sulle ginocchia, porta una mano alla schiena, quasi tentasse di sfilarsi dalle vive carni quel proiettile che l’ha attinta in un punto vitale: non ha il tempo di disperarsi, l’ultima immagine che si riflette nei suoi occhi è il cielo, un’ultima preghiera rivolta al Signore; lei, cattolica, che coltivava un grande sogno, consegna prematuramente l’anima a Dio. «I compagni – ricorda il venticinquenne nigeriano – mi strattonavano, mi dicevano che forse era ferita e che se mi fossi fermato sarei stato un bersaglio facile per quei cecchini, persone senza scrupoli».
IL DOLORE NEL CUORE…
Gli occhi ancora arrossati. Scusarsi con Evidence per aver toccato ferite ancora aperte, sembra il minimo. Nei confronti della donna e del dolore del giovane nigeriano. La fuga da Zabrata, poi Zuiwara, Libia. «Il dolore nelcuore – racconta – mi domandavo chi mi avrebbe dato il coraggio per raccontare a mia madre con la quale mi sento appena posso, che ero rimasto solo: magari, sulle prime, alleggerire il dolore dicendole che non avevo notizie su di lei, mia sorella, poi alla prima occasione, raccontare a mamma come in realtà fossero andate le cose».
Zabrata, Zuiwara. «Nel mio Paese ho studiato – ricorda – ma tanto, ho il mare nel sangue, ma anche quel sogno si è spezzato, mio padre è venuto a mancare a causa di una delle malattie che non perdonano: in Nigeria proviamo a curarci come possiamo, quei pochi medicinali costano troppo, la speranza alla vita possono permettersela solo “quelli con i soldi”». E i familiari di Evidence non sono fra “quelli”. Vivono come possono, di piccoli, saltuari lavori. Riescono a malapena ad apparecchiare tavola una sola volta al giorno. «Fine degli studi, papà viene a mancare, e quando manca quel piccolo sostegno economico cominciano i veri dolori; perdi, d’un tratto, la guida sicura, quella paterna, chi fino a quel momento si è preoccupato di tutto, dal sostegno per vivere con decoro e per gli studi, perché tu possa lasciare i campi e fare una vita migliore».
«Studiavo come marinaio – riprende Evidence – non so come chiamiate quei corsi voi, in Europa, fatto sta che ho imparato tutti i segreti del mare, fino a quando è stato possibile».
Fa male fare un passo indietro. Torniamo in Libia, le squadre della morte o, comunque, quelle di soldati privi di scrupoli che fermano neri a grappoli. «Se ti va bene ti picchiano – spiega il giovane nigeriano – ti rivoltano le tasche, te le svuotano di quei pochi soldi che hai e ti licenziano con un calcione bene assestato! A me è andata così, con i miei connazionali per un breve, ma doloroso periodo, facevamo colazione, pranzo e cena con quantità indescrivibili di pugni e calci».
DA MARINAIO A RIPARATORE DI CONDIZIONATORI
Poi Evidence riesce a liberarsi. Trova un lavoro nella stessa Libia. Lavoro in cambio di un viaggio per la libertà, l’Italia. «Mi improvviso tecnico di condizionatori – confessa concedendo un primo, accennato sorriso – mi va bene perché imparo subito la tecnica del perfetto riparatore; per molto tempo mi tocca lavorare sodo, ma la prospettiva che ogni giorno, all’indomani, sia quello buono per arrivare in Italia, mi alleggerisce di qualche preoccupazione; è così che va, lavoro sodo, stacco il biglietto per un gommone sul quale ci stringiamo come sardine in più di cinquanta: al momento dell’imbarco sembravamo in una di quelle cassette di pescato esposte al mercato».
Un viaggio che fortunatamente dura poco. «In mare aperto – dice Evidence – avvistiamo una nave italiana, il cuore comincia a battere forte, gli italiani sono amici: “Vengono a soccorrerci!”, pensiamo; saliamo a bordo, mi sembra quasi di essere a casa, io che in Nigeria ho studiato attività marinare; arriva il primo sospiro di sollievo, il prezzo pagato per essere lì, in quel momento, è stato alto, troppo: mia sorella non c’è più, il dolore torna daccapo a galla. L’arrivo in Sicilia, poi in bus fino a Taranto».
Restare in Italia, sarebbe bello. «C’è già poco lavoro per gli stessi italiani – dice – per me sarebbe un problema anche se prego ogni giorno il Signore perché la vita possa finalmente riservarmi un sorriso: non chiedo tanto, ma solo il necessario, per vivere dignitosamente; magari in Germania, mi dicono miei connazionali, potrebbe esserci una prospettiva, ma per ora tutto è così vago; certo, se restassi in Italia, a lavorare su una nave sarebbe il massimo, il mare lo avverto sulla pelle».
Nave militare, mercantile. «Quando penso a una nave, penso a un lavoro, a grandi viaggi, porti esteri in grande quantità: viaggiare senza paure, di queste non voglio più sentir parlare, penso di aver già dato abbastanza, il dolore difficilmente mi abbandonerà; viaggiare, perché no, trarre in salvo dalle acque ragazzi come me che hanno voglia di vivere, di scrivere una storia diversa che non sia quella di botte e torture, fughe e colpi di fucile: forse chiedo troppo, non so, allora diciamo che questo è il mio sogno, vivere una vita normale».