Samir e Rami, tunisini, tornati in Italia

Sbarcati in Sicilia, hanno in testa una sola cosa: trovare lavoro. «Eravamo già stati qui, ma senza permesso di lavoro siamo tornati indietro. Vogliamo tentare di farci un futuro, anche a costo di sacrifici. C’è chi ha fatto di tutto, dal meccanico ai lavori di campo, a noi sta bene qualsiasi cosa ci dia dignità…»

«Siamo arrivati in Italia per migliorare la nostra condizione, non in cerca di assistenza». Rami e Samir, tunisini, fra i ragazzi sbarcati nei giorni scorsi sulla costa siciliana, e una settantina arrivati a Taranto, non fanno giri di parole. Parlano un discreto italiano. Forza della tv, i film, internet e i loro compagni che li hanno preceduti. Parlano troppo bene la nostra lingua, però. «Siamo già stati in Italia, anche per più di qualche anno, poi non avendo i documenti a posto, ci hanno rispediti a casa: non c’è stato verso, non abbiamo trovato chi, allora, ci regolarizzasse: adesso speriamo che qualcosa cambi», dicono.

«Se non conosci bene l’italiano – riprendono Rami e Samir – o non hai voglia di impararlo in fetta, meglio lasciar stare: gli italiani sono accoglienti, ma non tollerano vedere ragazzi girare a vuoto per le strade…». Questo, confessano, facendo attenzione a dire e non dire, per evitare di essere fraintesi. Padroni della lingua non lo sono, perciò massima prudenza. Sperano ci sia tempo per imparare meglio la nostra lingua e spiegare questa loro scelta di vita.

«Sappiamo di cosa parliamo – dice Rami – siamo stati sempre in contatto con nostri connazionali e comunque di amici di altri amici, di altri Paesi africani, che in Italia hanno trovato una soluzione, anche non stabile: noi conosciamo la fame, sappiamo di cosa parliamo, i sacrifici non ci spaventano, ci accontentiamo di poco».

«NON RUBIAMO LAVORO»

«Non vogliamo per questo togliere lavoro ai nostri fratelli – chiarisce Samir – significherebbe giocare al ribasso, chiedere meno di compensi già bassi: so che qualcuno se la passa male, conosciamo cosa significhi cercare un aiuto e distinguere fra uno che te lo presta col cuore e un altro che invece vede nella tua disperazione il suo business».

«Non è stato un viaggio facile – prosegue Samir – anzi, è stato molto più complicato di quanto pensassi: è durato tre lunghi giorni; dico lunghi perché quando la traversata in mare la compi già su una imbarcazione di fortuna e trovi un mare agitato, sei partito nella situazione non ideale: allora ti assale la paura, che un’onda possa ribaltarti di notte, puoi essere anche uno bravo a nuotare, ma puoi solo tenerti a galla, è una gara di resistenza; dare bracciate in una direzione o nell’altra, senza avere chiara una meta, perché vedi tutto nero è un dramma nel dramma: non ti resta che pregare, perché le forze ti abbandonano, puoi solo invocare il cielo perché il mattino arrivi nel più breve tempo possibile».

«Cambierebbe poco – riprende Samir – perché se al mattino ti trovi nelle stesse condizioni, la speranza è che qualcuno ti veda, un aereo, un elicottero, una motovedetta, una nave: a noi è andata bene, ad altri un po’ meno: parlo di quanti in questi anni hanno compiuto una traversata con gommoni alla disperata ricerca di una spiaggia su cui sbarcare e sulla quale puntare il proprio futuro…».

«CERCHIAMO UN’OCCASIONE»

Qualcuno di loro, prima tv locali, poi a tv nazionali ha raccontato la loro avventura. «Siamo arrivati in barca, clandestinamente, viaggiato in mare tre notti, siamo partiti da Monastir. C’è chi per il viaggio ha pagato sette milioni di dinari, più o meno 1.500 euro, una cifra enorme per qualsiasi tasca, figurarsi per chi viene da una zona dove si soffre da matti». «Cerchiamo lavoro – hanno dichiarato ai giornalisti due connazionali di Rami e Samir – siamo venuti solo per questo e non per vivere di assistenza: qui c’eravamo già stati, ma le leggi non ci permisero di continuare a lavorare nella clandestinità». Chi ha fatto l’autista, il meccanico, lavorato in un autolavaggio, nella cucina di un ristorante, fatto l’imbianchino. «Non ci perdiamo in chiacchiere – dice Rami – è stata sufficiente una prima esperienza: non eravamo qui a fare la bella vita, lavoravamo, ma un brutto giorno mi fermarono e mi rispedirono in patria: non avevo i documenti, cosa che invece mi auguro di poter chiedere, altrimenti non so più cosa fare…».

«Siamo arrivati in trecento, forse più – riprende – un brutto viaggio: un po’ sono scappati, ma credo fossero terrorizzati, avevano paura che i militari italiani li rispedissero subito sulla prima imbarcazione per la Tunisia: noi, invece, vogliamo lavorare, ci auguriamo ci siano condizioni diverse rispetto all’ultima volta in cui siamo stati in Italia; che ci rilascino un permesso di soggiorno e che nel periodo in cui restiamo in Italia ci possiamo dare da fare a trovare un lavoro, uno dei tanti che sappiamo fare: non ci fermiamo davanti a nulla, purché sia un lavoro pulito…». Decoroso, vorrebbe dire Samir, che ascolta il suo connazionale in silenzio. Lo si capisce dall’espressione. «Che non sia un lavoro che ci riduca in schiavitù – ammette alla fine – che ci faccia vivere con enormi sacrifici: connazionali e nordafricani in passato hanno lavorato per dieci euro piegati sulla schiena nei campi per dieci ore di lavoro al giorno; cerchiamo qualcosa di meglio…». Umano. Non gli viene la parola. Quando gliela suggeriamo, accenna un sorriso. «Ecco, ci accontentiamo di poco: adesso che in Italia c’è il virus, non c’è molta voglia di ascoltarci: speriamo che tutto passi in fretta e che a qualcuno venga voglia di sentire un po’ anche noi, vogliamo lavorare, sentirci utili a un Paese così bello e accogliente…».