Kadiatou, venti anni, guineano, la fuga il viaggio fino al nostro Paese

«Amavo studiare, la morte dei miei genitori mi ha cambiato la vita. Schiavo di uno zio che mi maltrattava, decisi di andare via. Un lungo viaggio, un lavoro in Libia, i soldi per pagarmi il viaggio verso la libertà e il rispetto»

«Ho studiato dieci anni nel mio Paese, la Guinea; questo fino a quando è stato possibile, poi, ad un certo punto, non ho avuto più le certezze di qualche tempo prima tanto che ho dovuto abbandonare, non senza grande rimpianto, gli studi e la mia terra: verso un mondo sconosciuto, diverso, con la speranza che fosse più accogliente e rispettoso…».

Kadiatou, venti anni, guineano. Non è il primo, né l’ultimo ad arrivare in Italia da quel Paese. Dallo scorso settembre la Guinea è ripiombata in un governo militare, che ha imposto ai cittadini gravi restrizioni. Insomma, in Guinea si vive quotidianamente un conflitto, da quello civile a quello politico. E se dalle nostre parti esiste un confronto civile, basato sui ragionamenti, sul reciproco rispetto delle idee, lì è un’altra cosa. «Devi essere d’accordo sempre e solo esclusivamente con il Governo, che ti sorveglia, come se ti avesse installato addosso una telecamera: le telecamere sono gli occhi dei vicini, dei delatori, quelli che spesso raccontano una realtà di comodo per trarne vantaggi, talvolta nemmeno di carattere economico: il dramma sta proprio lì, la tua parola non vale quanto quella di chi ti ha denunciato, e ti ritrovi nell’occhio del ciclone senza saperne nulla, indicato come uno che svolge attività antigovernative…».

Kadiatou, regolare permesso di soggiorno, esprime il suo pensiero. In Italia da poco più di due anni, parla bene l’italiano. «Penso di avere un dono – spiega chiaro, senza fraintendimenti – le lingue le imparo subito e l’italiano è una di quelle che più mi affascinano: in Guinea studiavo il francese, per una decina di anni ho frequentato la scuola. Fino a quando è stato possibile: credo di avere la vocazione per lo studio, sono assetato di conoscenza e voglio imparare, imparare, imparare; assorbire, se possibile, quanto più possibile».

Foto RedattoreSociale

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PARTIRE, UN DRAMMA

«Abbandonare casa è stato come vivere un dramma: un distacco che non auguro a nessuno, mi incoraggiava l’unica cosa che mi spingesse a fare questo tipo di scelta: la mancanza di un’alternativa; fossi rimasto in Guinea non so come sarebbe andata a finire: avevo perso i miei genitori, nessuno più poteva assicurarmi lo studio».

«Mamma era morta, mio padre si era risposato, ma non era cambiato molto, lui mi garantiva l’accesso allo studio: vedermi seduto fra i banchi mi faceva sentire bene, ripetere la lezione che l’insegnante aveva appena spiegato mi inorgogliva: “Kadiatou, mi dicevo, vuoi vedere che diventi uno importante?”». Un medico, un insegnante, un commerciante, come il papà. «Ecco il dramma: un brutto giorno mio padre, chiusa l’attività si stava ritirando a casa quando fu fermato da due brutti ceffi che gli intimarono di mollargli l’incasso; papà aveva pochi spiccioli, quella giornata da dimenticare: testimoni hanno sostenuto che mio padre si difendeva come poteva, a mani nude: non gli credettero, così uno dei due dopo averlo minacciato gli sferrò una coltellata al petto: trasportato di corsa nel presidio sanitario più vicino dopo due ore morì».

E con la morte del papà, per Kadiatou si spense anche il sogno di diventare “qualcuno”. «Cominciai ad andare saltuariamente a scuola, ma non ero più lo studente-modello di qualche tempo prima: studiavo poco perché lavoravo per mio zio, fratello di mio padre, che evidentemente non era la stessa cosa; mio padre mi sgridava, mi diceva come andava fatto un lavoro, mio zio no: non pensava nemmeno cosa fosse una domanda».

Foto Avvenire

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DOLORE INFINITO

«Qualsiasi cosa gli chiedessi sembrava fosse un rifiutarmi all’obbedienza, così botte, schiaffi, calci, perfino ustioni provocate con una lama rovente, nemmeno fossi una bestia a cui imponi un marchio! Volevo continuare gli studi e mio zio, di questo, non voleva sentirne nemmeno lontanamente parlare: da qui il proposito di abbandonare qualsiasi cosa, fare fagotto e andare via».

Attraversa Guinea, Mali, Algeria, fino alla Libia, Kadiatou. «In Libia trovo lavoro, anche se non proprio quello che cercavo: in una masseria o qualcosa di simile, accudisco animali per qualche mese, il tempo materiale di guadagnare un po’ di soldi e finalmente mettere insieme di che pagarmi il viaggio per l’Europa».

«Salii a bordo di una grossa barca piena di ragazzi, uomini, donne e bambini, un centinaio in tutto: tunisini, marocchini e guineani. Stavamo un po’ stretti, ma a quel punto a chi importava più, ci eravamo imbarcati per la libertà. Partiti di notte da una spiaggia, qualcuno non era mai stato in mare: c’era chi stava male, vomitava. Il viaggio di notte era illuminato dalla sola luna».

Kadiatou non sapeva dove erano diretti, aveva intuito che sarebbero andati in Europa, ma lui aveva in testa un unico obiettivo: ritrovare serenità e continuare gli studi. E finalmente, una mattina, al primo sole, la costa. Non sapeva ancora da che parte stesse indirizzando quel barcone il comandante. Era l’Italia.