Rashid, torturato, non camminava più sulle sue gambe
Trentatré anni, nigeriano. Aveva rifiutato di prendere il posto del papà stregone. Un’assemblea aveva deciso di fare “giustizia”. «La fuga con mia madre, l’acquisto di un visto, l’arrivo in Italia, una serie di operazioni e, finalmente dopo quindici anni, i primi passi…». Lavora saltuariamente, sogna un visto per ragioni umanitarie. «Tornassi a casa, per me sarebbe la fine», dice
«Grazie all’Italia ho gettato via le stampelle sulle quali dovevo appoggiarmi per camminare: la mia vita è di quelle vissute sul filo del dolore e della persecuzione», dice Rashid, nigeriano di trentatré anni. Almeno la metà di quegli anni vissuti pericolosamente, li ha trascorsi su due gambe malconce, torturate, percosse, spezzate, perché dalle sue parti se non fai come ti dicono rischi la vita.
«E per me era meglio morire che essere sottoposto a torture quotidiane, appeso a testa in giù e malmenato con qualsiasi cosa alle ginocchia: quando sei in quelle condizioni pensi a mille cose, anche ad estraniarti da quel corpo, talmente forti sono quei colpi e quei dolori…». Rashid non riesce a raccontare di getto la sua storia. Si ferma, porta le mani al viso, asciuga quelle lacrime di umiliazione più che di dolore. Riparte nel racconto. «In quelle condizioni pensi anche che sia meglio la tortura che il morire: poi quegli aguzzini infieriscono con tale impeto e cattiveria sul tuo corpo, un giorno, una settimana, un mese, tanto che a quel punto pensi che quella storia non finirà mai se non quando sarai morto: e, allora, meglio farla finita, subito!».
Perché tanta violenza. C’è una storia che noi, per cultura, non comprendiamo, anche se la nostra cronaca è piena di violenze efferate. E allora, Rashid prova a spiegarcela. Ci sono cose che per lui fanno parte di una certa normalità. «Mio padre era al capo di una setta religiosa, di quelle che seguono in molti; a capo viene eletto, a sensazione, l’elemento più carismatico, chi ha dialettica, sa predicare, riesce a persuadere e convincere altra gente ad entrare nella setta, perché quella comunità è la migliore, non teme nulla…».
UNA SETTA, I RITI…
Ma c’è un “ma” nella vita del trentreenne nigeriano. «Mio padre muore e secondo regole non scritte, il suo primo erede maschio deve subentrargli in tutto e per tutto: officiare i riti, impartire ordini e penitenze, esercitando pieno controllo; io che ho studiato un po’ ho sempre avuto riserve su quei rituali, anche perché spesso sfociavano in una violenza inaudita; e più studiavo e più mi rendevo conto di quanto assurdo fosse il ruolo di mio padre. Il mio genitore muore, i suoi riti non hanno funzionato su se stesso, toccherebbe a me prendere il suo posto, lo decide un’assemblea; chi si rifiuta viene sottoposto a torture fino a quando non si arrende e riveste il ruolo di quella comunità».
Non ci resta che fuggire. «Con mia madre preparo la fuga, ci procuriamo un visto che non costi molto: non abbiamo molti risparmi, il mio obiettivo è l’Europa, arrivare qui e farmi operare: cammino con l’ausilio di due stampelle, mi reggo appena, ho le ossa rotte, le conseguenze di quelle torture potrebbero complicarsi al punto tale che potrei morire nel giro di poco tempo». In Nigeria, cure, nemmeno a parlarne. «L’unica è la via di fuga: mamma si ferma prima, io proseguo per l’Italia. Chiedo asilo, vengo portato in ospedale dove un’equipe di medici mi opera immediatamente: ricordo la sala operatorio, le voci del personale medico – io che l’italiano lo masticavo già bene… – che si interrogava su come avessi fatto a sopravvivere in quello stato e sottoposto a ferite così gravi da far temere che non potessi camminare più sulle mie gambe».
ITALIA, UGUALE MIRACOLO
E, invece. «Via le stampelle, adesso cammino lentamente, avverto dolori, ma non sono più lancinanti come un tempo: per chi ha sopportato torture come le mie, stare oggi in queste condizioni è come se fosse una passeggiata di salute; se c’è qualcosa che bruttissima quella esperienza mi ha insegnato è lo stringere i denti: adesso va meglio, perché non poteva che essere così».
Rashid, la riconoscenza per l’Italia, il sogno di restare qui, con un lavoro. «Svolgo lavori con una società che si occupa di pulizia, per me un’attività leggera, mi muovo lentamente, ma colleghi e datore di lavoro sono soddisfattissimi di quello che faccio; c’è un solo problema, il contratto è saltuario e temo che questo possa incidere per chiedere il permesso di residenza: spero che, nel frattempo qualcosa accada, e che questo incubo che dura da almeno quindici anni finisca una volta per tutte. Di certo, un po’ grazie alla mia testardaggine, ma soprattutto grazie all’Italia e ai medici italiani, possa richieder la protezione umanitaria: se tornassi in Nigeria per me sarebbe la fine».