Alberto Patrucco, ospite di “Costruiamo Insieme”
«Ho la vaga certezza che, di questi tempi, usciti dal tunnel, se ci andrà bene riemergeremo in una zona d’ombra…». Il popolare comico nei nostri studi. Dopo dieci anni, a Taranto, per uno spettacolo teatrale. «Mi ispiro al grande Brassens, l’ho tradotto e gli ho dedicato due album»
Alberto Patrucco, da Zelig a Colorado Café passando per il Maurizio Costanzo Show e Ballarò, fino ad entrare nei nostri studi, per essere uno dei protagonisti della rubrica “Con parole mie”. E’ stato ospite di “Cabaret al Tarentum”, che ci vede fra i maggiori sostenitori della rassegna con gli ospiti in cartellone in esclusiva sui nostri strumenti di comunicazione, sito, webradio e canale youtube.
Patrucco, promotore del pessimismo comico.
«Parafrasando il sommo Leopardi, il pessimismo non è cosmico, ma è comico. Mi sembrava un artificio lessicale piuttosto azzeccato. Per dirla con Altan: il pitale lo vedo sempre mezzo pieno; l’idea del pessimismo è quella di non occuparmi di temi non banali – con il massimo rispetto per tutti, dunque per nessuno… – generalmente rappresentati da moglie, suocera, avventure o disavventure domestiche. Comico, visto come mestiere, è un sostantivo che uso a fatica: preferisco cavalcare umorismo e ironia piuttosto che comicità; dunque, spostando i riflettori ci si accorge che c’è dell’altro, una scelta che consente di evitare una certa omologazione e, allo stesso tempo, di interessarmi di altre tematiche – visti i tempi non proprio idilliaci – rivolte più al pessimismo che all’ottimismo; ma attenzione, queste riflessioni hanno il solo scopo di sollecitare risate liberatorie. Come a dire che bisogna far ridere sul serio per non essere comici».
Che rapporto ha con la tv.
«Bellissimo, ma è la tv che non ha un buon rapporto con me. Non ho avversità nei confronti di un mezzo che bisogna vedere, però, come lo riempi».
C’è un programma preferito?
“Oggi lo stand-by, il puntino rosso che appare quando l’elettrodomestico è spento. C’è stato un momento in cui ne ho fatta di tv, conservando la mia caratteristica che non è assimilabile ad altri tratti – assolutamente dignitosissimi – ma in questo momento non ne sto facendo: non nascondo che sento la mancanza di non farne, perché aiuta ad avere visibilità, ma non mi vestirei mai da coniglio o da ortaggio per lavorare, con tutto il rispetto per fauna e vegetazione del pianeta…».Georges Brassens, andata e ritorno. Il primo amore non si scorda mai.
«Uno dei poeti più grandi del Novecento al quale ho dedicato due miei album. Credo che il suo mondo sia di insegnamento anche per la scrittura umoristica, poi è uno che ha cambiato il modo di fare canzone. E’ stato l’antesignano dei cantautori, ha aperto la strada a un modo di fare canzoni abbracciando tematiche che non fossero sentimental-ginecologiche e dintorni, spostando invece l’attenzione su altro».
De André è un altro che deve tanto a Brassens.
«Inizialmente De André era un clone di Brassens; gli va però riconosciuto l’aver fatto conoscere il maestro al pubblico italiano, al di là delle traduzioni di opere come “I gorilla”, “Morire per delle idee”, “Le passanti”, “Marcia nuziale”, “Delitto di paese”. “Bocca di rosa”, “La città vecchia”, “La canzone di Marinella”, sono francofone e brassensiane come impostazione: De André quel faro lo ha sempre tenuto presente, diventando a sua volta riferimento per la scuola genovese di cantautori che non comprendeva il solo Paoli: “La gatta”, per esempio, è un brandello di una canzone di Brassens. Ciò detto, Brassens per tutti i cantautori non è stato solo un faro ma un tripudio di luci”.
Patrucco, nella sua satira ce n’è per tutti.
«Sarebbe sciocco fare satira a senso unico: non conosco politici immacolati, tutti fanno tutto pur di amministrarci come gli pare; scendono per strada il giorno di festa, alla vigilia del voto, stringono mani, fanno le solite promesse e al lunedì già non li trovi più: polverizzati. E hai voglia a cercarli…».
Che storia è la sua?
«Mi ripeterò, ma non mi ritengo un comico, vengo dal cabaret metà Anni Settanta. Insieme con un gruppo di “irriducibili” ho cominciato dalle cantine, fatto gavetta che oggi molti non fanno in quanto subito promossi in prima serata sulle reti televisive principali. Buon per loro, lo dico senza alcuna punta d’invidia. Il cabaret non è un genere, è uno spazio: chambre, come dicono i francesi, una piccola stanza. I comici in tv, in quegli anni erano Chiari, Bramieri, Macario, Dapporto. Loro sì che facevano bene la tv; noi, sparuto drappello di teste malsane, facevamo invece cabaret. Provavamo a riempire le cantine, gli spazi che ci ospitavano con qualcosa che avesse un contenuto. Il cabaret è un mondo fatto di parola, aforismi, battute e canzoni. Canzoni, appunto. Io non ho iniziato ciarlando e berciando, ma cantando. Suonavo, pianoforte e chitarra: sparavo facezie, bordate, e cantavo…».
Fare tv, suona quasi come un’offesa.
«Non volevamo cambiare il mondo, a noi stavano bene quei posti, quei sentimenti, quelle intenzioni. Abbiamo resistito parecchio. La tv, dicevo, dà popolarità, ma solo se sei in grado di confermare il tuo tratto, il tuo stile, il pubblico resta in perfetta sintonia con le cose che fai».
Bei tempi quelli delle cantine.
«Non sono un passatista, ma a Milano quelli sono stati anni magici. Non ci abbattevamo nemmeno se qualche sera vedevamo più gente sul palco che pubblico in sala».Dalla tv alla libreria, dal teatro al cabaret. Vederla, ascoltare i suoi monologhi, è un po’ come tornare sul luogo della “sciagura”.
«Sciagura, bella questa. Mi piace, però, pensare che si saranno trovati bene, tanto da tornarci. La tv, i giornali, i libri, sono luoghi di appuntamento, con decenza parlando. Se uno si trova bene, torna, sennò gira alla larga».
Georges Brassens, grande poeta e interprete francese, tradotto da lei, parola dopo parola. Un fioretto?
«Solo nelle intenzioni, poi quando si spengono le luci e tacciono le voci, giù sciabolate: badile e piccone. Brassens è uno che faceva grande ironia, le sue canzoni di cinquanta, sessant’anni fa sono buone ancora oggi: “Strofe per uno svaligiatore” o “I rampanti”, per esempio, c’è tanta sostanza e attualità».
Ha ritirato riconoscimenti che stanno fra spettacolo e cultura. Lei si sente di stare fra l’uno e l’altra?
«Non esageriamo, io definisco le mie riflessioni “momenti di pessimismo comico” non a caso. Certamente non amo l’ostentazione del tormentone al gratis; amo ragionare sulle cose e mi piace pensare che anche la gente arrivi a sorridere a una battuta che ha l’ambizione di essere ironica, per ragionamento».
Da dieci anni non era ospite in teatro, a Taranto. Ha un buon rapporto con la provincia ionica, ma sostanzialmente con la Puglia.
«Non sono un animale marittimo eppure quando vengo a fare serate da queste parti mi trovo sempre meglio, perché intanto in Puglia mi sento di casa e credo che queste sia una delle regioni dove faccio un bel numero di spettacoli. Insomma, non so per quale contrappasso geografico, quando vengo da queste parti è come se tornassi a casa: gli amici, il pubblico, la gente che mi segue in tv, trova divertenti i miei spettacoli, i miei monologhi, i miei libri».
Vede sempre buio?
«Come il maestro Brassens, al quale chiedevano perché non si lamentasse e lui rispondeva “…solo perché può peggiorare”, io dico che ho la vaga certezza che, di questi tempi, usciti dal tunnel, se ci andrà bene, ma bene bene, riemergeremo in una zona d’ombra…».
Buio.