Wahab, nigeriano, ventitré anni, religione cattolica
«Perseguitato dalla mia comunità, avrei dovuto fare l’esorcista, rituali antichi, fuori dalla realtà. Ho guidato una moto-taxi per pagarmi gli studi: voglio studiare l’italiano per comunicare e imparare un mestiere. La fuga a bordo di un gommone, le preghiere, voglio andare a messa ogni domenica»
Non voleva fare l’esorcista, “mestiere” che gli spettava per eredità. I riti erano un affare di famiglia. Prima di lui il padre, prima ancora il nonno. «Non credo a magie e sortilegi, cose che appartengono a un passato lontano: sono cristiano, ho una grande fede e cerco una chiesa nella quale pregare almeno una volta a settimana, la domenica».
In estrema sintesi il pensiero di Wahab , nigeriano di Auchi, ventitré anni, primo di cinque figli, maturato al Politecnico, giunto in Italia a fine aprile. Una corsa in bus da Catania a Taranto, dopo che una nave aveva tratto in salvo lui e altri centoventisette “passeggeri” come lui, pieni di speranze, desiderosi di imprimere una svolta alla propria vita. Possibilmente non legata ad usanze antiche, superate, purtroppo ancora esistenti nei villaggi nei quali non sanno cosa sia internet e la tv rappresenta un lusso.
«Sono il primo di cinque fratelli – spiega Wahab – mio padre, purtroppo, non c’è più: una brutta malattia, non so quanto incurabile – da noi, in Nigeria, basta così poco per ammalarsi, non ci sono medicine o, se ci sono, costano tanto… – se l’è portato via: chiunque lo abbia visto, piuttosto che visitato, non gli ha dato scampo, è morto lasciandoci in eredità la bottega di esorcista, che sarebbe toccata a me essendo il più grande dei suoi figli».
Esorcismo e sortilegi. Non è il primo, non sarà l’ultimo che affronta questo tema. A volte, i ragazzi fuggono dal proprio Paese vittime di riti voodoo. Altre, per aver rifiutato una sorta di passaggio di consegne, da genitore a figlio. E’ il caso di Wahab, che proprio non ha voluto saperne di alimentare una usanza alla quale lui stesso non credeva più.
QUEI RITUALI SUPERATI…
«Non puoi stare a spiegarlo alle vecchie generazioni, lo stesso a ragazzi che non sono andati a scuola per mille motivi: non interessati allo studio, a causa del lavoro o perché senza soldi; dalle nostre parti studiare è quasi un lusso…». Anche questa una storia già sentita. «Non tutti possono permettersi l’iscrizione a una scuola superiore, ci sono libri, quaderni, penne e matite da compare; io ce l’ho fatta, con molti sacrifici: mattino e pomeriggio lavoravo, buona parte di quel poco che guadagnavo lo passavo a mia madre; con i pochi soldi che mi restavano pagavo gli studi: non so, ora, a cosa sia paragonabile il mio titolo di studio conseguito al nostro Politecnico, so solo che non vedo l’ora di infilare daccapo la testa fra i libri e imparare l’italiano».
Interprete di una delle tante chiacchierate, è Abdoul, uno degli operatori di “Costruiamo Insieme”, la cooperativa che ospita Wahab nel centro di accoglienza. Ragazzi che parlano tre, quattro, anche cinque lingue. Non è sufficiente conoscere l’inglese, lingua ufficiale della Nigeria. Ci sono villaggi, dialetti che cambiano da regione a regione. Ma Wahab, dove non arriva con l’ottimo lavoro dell’interprete, si aiuta a gesti. E’ già entrato nell’abitudine degli italiani. «Voglio imparare l’italiano al più presto: sto facendo un corso di alfabetizzazione, l’unico sistema per entrare con il massimo rispetto in un Paese straniero è quello di imparare la lingua e mostrare che se siamo qui non è certamente per guardare sole o luna, quelli sono uguali ovunque, ma per lavorare, e io ho tanta voglia di lavorare; farei qualsiasi cosa, ma per imparare, seguire gli insegnamenti di qualcuno che vuole spiegarti un lavoro, è importante conoscere bene l’italiano».
INTERE GIORNATE IN SELLA PER PAGARMI GLI STUDI
Né meccanico, né muratore. «Guidavo una moto-taxi: prendevo a bordo chiunque dovesse spostarsi da una parte all’altra del villaggio, oppure dovesse spingersi su distanze tutto sommato ragionevoli; salivo in sella dopo la scuola, i compiti li facevo già in aula, così lasciati libri e quaderni mi recavo dal mio datore di lavoro: fra i miei compiti, lucidare la moto sulla quale dovevo lavorare e, una volta finito il mio turno, ripulire daccapo il mezzo; le nostre strade, specie quelle in periferia, sono polverose; non guadagnavo molto, ma buona parte di quello che mettevo in tasca, una volta a casa lo consegnavo a mia madre: trattenevo giusto i soldi per l’iscrizione a scuola, un nuovo quaderno, un libro; così, studiando ogni giorno, alla fine mi sono fatto l’idea che esorcismi, riti esoterici e tutto il resto, erano cosa superata, alle superstizioni credono sempre meno persone».
Non ha seguito il “lavoro” del papà, Wahab. La comunità del suo Paese, Auchi, non solo non glielo ha perdonato, lo ha pure perseguitato. La prematura scomparsa del papà, ha impresso un’accelerata al proposito di scappare, andare lontano da quella che non era più la sua realtà. «Non è stato facile, arrivato in Libia, sono stato fermato: non avendo soldi con me, sono stato gettato in prigione, cinque lunghi mesi di stenti; mi chiedevano se ci fossero stati parenti disposti a pagare il mio riscatto: niente; allora botte: pugni e calci erano la mia colazione e la mia cena».
Poi, per fortuna, ancora una fuga. «Sono scappato dalla prigione, lontano ho trovato un lavoro per mettere insieme i soldi e pagarmi il viaggio per l’Italia: quattro mesi di duro lavoro, facevo pulizie ovunque capitasse, in particolare in una macelleria, a fine giornata il posto di lavoro doveva essere uno specchio e lì mi avevano preso a benvolere; con i soldi guadagnati ogni settimana, pagavo il fitto insieme a miei compagni di casa, il cibo da mangiare; un po’ di sacrifici e, alla fine, da parte avevo messo duemila dinari, poco più di mille euro, la somma utile per il viaggio da Tripoli all’Italia».
CENTOVETTONTO A BORDO DI UNA “BAGNAROLA”
Solito imbarco, un gommone, che per quanto extralarge fosse, era comunque una “bagnarola”, piccola, pericolosa una volta in mare aperto. «Tanto valeva tentare – dice Wahab – non era vita a Auchi, e in Libia, roba da spezzarsi la schiena e con la paura costante che arrivasse qualcuno con pistola o fucile e ti chiedesse i soldi per risparmiarti la vita: eravamo in centoventotto quella mattina all’alba quando partimmo; le urla, fra liberazione e disperazione, in quei momenti ci sentivamo padroni del nostro futuro, ma affrontare quella interminabile distesa di acqua provocava batticuore». Per fortuna, una volta in mare aperto, ecco una nave. «Non ricordo di che nazionalità fosse – prova a spiegare il ventitreenne nigeriano – so solo che quella nave ce la mandò il Cielo al quale avevo rivolto ripetutamente le mie preghiere: una volta a Catania, un bus ci ha accompagnati a Taranto; la mia vita stava cominciando a prendere una strada diversa, molto più lontano da quelle migliaia di chilometri che mi dividono dalla mia Nigeria: lontano da tradizioni e un modo di pensare ormai superati».