Sehou, beninese, trentadue anni, si racconta

«Tanto è durato il mio viaggio fra la fuga dal Benin e l’arrivo in Italia. Saldatore, in Libia ho fatto il muratore, sono finito nelle mani di bande armate che mi hanno ridotto una gamba a brandelli. I miei forti sentimenti dalla testa al cuore»

Foto articolo Storie - 1 (1)«La mia vita, un’odissea; un viaggio lungo tre anni, lontano dalla famiglia, dai miei affetti più cari e un viaggio della speranza, anche questo lungo, come quella sofferenza che mi ha segnato profondamente». Sehou, beninese, trentadue anni, cristiano, prova a tracciare un primo racconto. Non ha ancora realizzato che il peggio possa essere passato e può finalmente guardare al futuro con più fiducia. E’ da poco più di un mese ospite della cooperativa “Costruiamo Insieme” e già si sforza a comprendere l’italiano. A parlarlo, nemmeno a parlarne. Per ora. Per evitare che le sue parole, le frasi raccontino un’altra storia o siano di senso incompiuto, si fa aiutare da Allahassen, operatore senegalese. Anche lui, come Sehou, parla francese. «Nel Benin è la lingua ufficiale», spiega, «meglio che qualcuno ti trasferisca quello che da tanto ho nella testa e nel cuore». Un conflitto di sentimenti che il trentaduenne beninese vorrebbe raccontare. «Metto mentalmente le cose a posto, voglio cominciare dall’inizio, anche se poi le cose che mi hanno fatto più male, e non solo fisicamente, arrivano verso la fine di questo mio lungo viaggio».

Proviamo a prendere nota, Sehou si racconta. «Nel mio Paese non si vive bene, l’idea che avevo stando a casa con i miei familiari non era incoraggiante: da un momento poteva accadermi qualsiasi cosa; perdi il lavoro, saltuario, e non sai perché, gli amici di colpo diventano sempre meno, ti evitano quasi avessi una malattia contagiosa; ma li capisco anche, la loro paura era quella di perdere occasioni di lavoro, dunque mettersi qualcosa in tasca e sfamare la propria famiglia».

LA MIA FAMIGLIA, NON LA SENTO DA TANTO

La famiglia di Sehou. «Mio padre è morto, l’età dalle nostre parti conta poco, la prospettiva di vita, le cure per combattere un malessere sono vicine allo zero; lì vivono ancora mia madre, mia moglie e i miei due figli».

Mancanza di comunicazione. E’ qui da più di un mese, nessun contatto ancora con la famiglia. A migliaia di chilometri dall’Italia i “suoi” non sanno come mettersi in contatto con lui, mentre l’interessato promette che alla prima occasione proverà a farlo. Intanto da tre anni è lontano dal suo Paese. «Certo che mi manca, pensate che per uno di noi che affronta un lungo viaggio senza sapere come andrà a finire, arrivare in Italia sia necessariamente una vittoria? Sono andato via da casa, ho staccato con il mio passato, se non ci saranno le condizioni per tornare senza temere rappresaglie, purtroppo dovrò tenermi alla lontana».

L’Italia, Sehou potrebbe restare qua. «Ho studiato e fatto lunga esperienza da saldatore, trovare anche un piccolo posto per svolgere questa attività e guadagnare qualcosa sarebbe l’ideale; non mi tiro indietro, anche se si trattasse di fare altri lavori manuali sono disponibile; ho fatto anche il muratore: ovunque ci sia da lavorare non mi tiro indietro; da qualche settimana arrivato in Italia, mi sto già dando da fare, ho la testa dura e da quando ho tolto l’ingessatura a una gamba chiedo in giro se cercano manovali».

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Già, l’ingessatura. «Fra poco ci arrivo, ma non è l’unico elemento doloroso di tutta la mia vicenda; dopo essere andato via dal Benin e viaggiato per la Libia, chiedo subito un lavoro nel quale impiegarmi».

Libia, Tripoli strategica. «Lo sanno gli stessi libici ed è qui che comincia la lotteria: c’è gente che approfitta della tua disperazione, ma anche gente per bene: ti fa lavorare e in cambio ti paga o concorda con gli interessati i trasferimenti su imbarcazioni di fortuna per l’Italia».

Un lavoro, Sehou, lo aveva pure trovato. «Lavoro per una, due, tre settimane, pane e acqua, soldi nemmeno l’ombra: cominci a pensare che sia sfruttamento, chiedi chiarimenti e ti cacciano; così è accaduto a me, fino a quando non ho trovato un muratore che mi ha voluto al suo fianco: abbiamo lavorato duro insieme, ma alla fine mi ha aiutato a pagarmi il viaggio per la libertà».

PRIGIONIERO, BASTONATE E UN GINOCCHIO FA “CRAC!”

Non tutto però fila liscio. Fra la fine dei lavori e il gommone, uno dei tanti, per l’Italia, succede che dei civili, armati di tutto punto e organizzati in bande, fermino il trentaduenne bengalese. «Tre mesi di prigionia, senza sapere cosa potesse capitarti da un momento all’altro: devi solo pregare di non essere un peso, che potresti essere comunque una fonte di guadagno: un riscatto o fare incassare loro il frutto del tuo lavoro». E quando non sanno più cosa fare di te, arrivano alle maniere forti, tanto che puoi rimetterci la pelle. «Sono passati alle vie di fatto: armati di bastone, picchiano fino ad ammazzare: chi non sopravvive ai maltrattamenti, diventa un esempio per tutti gli altri; io che non avevo contatti con la mia famiglia, non potevo garantire somme di danaro, così le bastonate arrivarono anche a me: ovunque capitasse, viso, spalle, braccia, fianchi, gambe; una bastonata più forte delle altre su una gamba, sento “crac!” e un dolore da mozzarmi il fiato: mi avevano rotto una gamba». Sehou, quella gamba, se la trascina come meglio può. Così conciato, ai banditi non serve più. Non più sotto stretta sorveglianza, riesce a liberarsi. Infine, il gommone dei sogni. Quei pochi soldi che ha nascosto nonostante le torture, diventano utili per il viaggio per l’Italia.

«La gamba ingessata, in Sicilia resto poco, giusto il tempo di essere soccorso, poi in bus il trasferimento definitivo a Taranto: ora il tempo di organizzarmi, trovare un qualsiasi lavoro da fare e per poi ricontattare i miei familiari; tre anni sono lunghi, i miei due figlioli saranno cresciuti, potrei non riconoscerli subito, ma la voglia di riabbracciarli è tanta».