Kevin, nigeriano, diciannove anni, un sogno dopo tanta sofferenza

 «Ogni notte penso a quella divisa bianca sulla mia pelle nera: mi starebbe a pennello». Poi racconta la fuga. «Un’odissea, perseguitato da familiari, preso a bastonate, solo perché dicevano che avevo un’anima negativa». Infine la scelta. «Scappai dal mio villaggio, fui prigioniero quattro mesi a pane e acqua in Libia, infine il viaggio per l’Italia…» 

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«Problemi familiari, di quelli seri, perseguitato da una setta della quale facevano parte anche parenti, perseguitato, fatto oggetto di sortilegi e preso a bastonate!» . Kevin, nigeriano di diciannove anni, fede cristiana, da un paio di anni Italia, mostra una brutta cicatrice su un braccio. «Questo lo devo ai miei familiari che di colpo hanno cominciato a scagliarsi senza un motivo contro di me: non ne facciamo un mistero, vivevo in un villaggio, non in una cittadina, e lì vale la legge del più forte, ma anche una certa ignoranza; a noi giovani che leggiamo, usiamo internet, ci documentiamo, certe cose al giorno d’oggi fanno sorridere: intanto accadono, in certe persecuzioni finisce anche peggio, altro che cicatrice».

Kevin è in Italia da due anni, comprende l’italiano, studia. Oggi ospite del Centro di accoglienza “Costruiamo insieme”. «Ho lasciato a malincuore – riprende – il mio Paese, salutato papà, mamma e una sorellina: sono stati loro stessi a spingermi a lasciare il villaggio, le cose si stavano mettendo male, mio padre assistendo continuamente a un inspiegabile accanimento nei miei confronti – secondo loro ero un’anima “negativa” – prima o poi si sarebbe compromesso, allora per evitare una conclusione più drammatica, ho preferito andare via, scappare – brutta parola – nonostante non avessi fatto niente».

Dice addio alla terra in cui era nato, Agbor. Questo il nome del suo villaggio. A voce non molto comprensibile, prende carta e penna e lo scrive. Stampatello, una calligrafia invidiabile. Si vede che ha studiato e questo è un altro elemento che proprio non gli va giù. «Pensavo di farmi strada e affrontare la vita dopo aver studiato a lungo: mi è stato impedito nel modo peggiore che potesse esistere, cacciato da gente che non sa neppure cosa sia un libro, figurarsi leggere, comprendere cosa sia la filosofia».

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APPENA DICIASSETTE ANNI…

A diciassette anni Kevin conosce il massimo dell’accanimento. «Non c’era giorno – ricorda – che a turno non venissero a cercarmi: mi circondavano, mi minacciavano prima a parole, poi passavano alle vie di fatto, spintoni, mi colpivano con pugni o qualsiasi altra cosa raccoglievano da terra, rami che usavano come una frusta, bastoni che usavano per infliggermi legnate: è in una di queste sciagurate spedizioni che mi picchiano per lasciarmi sanguinante, steso e raccolto nel mio dolore; dovevo andare via, lasciare la mia terra, quella piccola casa era diventata un presidio di “primo soccorso”, mia madre e mio padre i miei infermieri; così un brutto giorno mio padre mi prese in disparte, lontano da mia madre, per dirmi che era giunto il momento di mettermi in salvo, a lungo andare ci avrei lasciato la pelle: quel gesto e quelle parole mi fecero più male di cento bastonate, erano un segno di resa, ma alla fine era un consiglio a fin di bene… Lo capii dall’ultimo abbraccio, forte, dei “miei”, quando un giorno misi insieme poche cose e scappai».

Comincia l’odissea, una vita fatta solo di pericoli, mai un sorriso, un momento di felicità, come ora gli capita ogni tanto. «Essermi staccato dalla mia famiglia – osserva Kevin – mi ha lasciato una ferita profonda, è la sconfitta della fuga, come se il mio fosse stato un segno di debolezza: io avrei anche affrontato tanta violenza, ma non so cosa sarebbe rimasto di me; io stesso, a mia volta, fossi sopravvissuto a tanta furia, sarei potuto diventare più violento di loro».

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SOFFERENZA SU SOFFERENZA

La sofferenza di Kevin prosegue. «Dovevo arrivare in Libia – dice – e una volta arrivato lì, non mi va meglio, dei sette mesi circa passati in quel Paese, che vedevo come un punto di arrivo, almeno quattro li trascorro in una prigione e anche qui giù bastonate senza motivo; quando mi picchiavano pensavo sempre a quel giorno che tutta quella sofferenza sarebbe finita; la vita che ci racconta il Vangelo è fatta di dolore ma anche di gioia: io, il primo, il dolore, avevo imparato a conoscerlo, pensavo che prima o poi sarebbe arrivata anche la gioia, sotto forma di non so cosa, ma quella sarebbe arrivata anche per me…».

Non aveva soldi e per i suoi aguzzini, banditi armati di pistole e fucili, lui in qualche modo rappresentava un capitale. Braccia da lavoro, per qualcuno che pagasse il suo lavoro come fosse una cauzione. «Finalmente un signore si fece vivo – ricorda il diciannovenne nigeriano – fu garbato, ma anche molto chiaro: era disposto a pagare ai miei carcerieri il valore che questi avevano dato alla mia vita, mesi a pane e acqua; così fu: feci il muratore, le pulizie ovunque capitasse, mi impegnai nei campi; tre mesi, più o meno, bastarono quelli per “pagarmi” il viaggio verso l’Italia; la Libia, che in un primo momento poteva sembrare un Paese ospitale, tanto da darmi lavoro e una prospettiva, si rivelò una delusione: però quella prigionia stava finendo e questo era ciò che più di qualsiasi cosa contava».

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LAVAPIATTI, CAMERIERE, CUOCO E CHEF

Kevin è molto contenuto, non vuole andare incontro a una delusione. Il suo cuore, però, esplode di gioia quando vede il “suo” gommone, che condividerà con tanta altra gente in fuga dalla Libia. «Tanta fu la gioia che entrai in uno stato confusionale: se qualcuno mi chiedesse quanti eravamo a bordo e quanti giorni ho viaggiato su quella “bagnarola” non saprei dire, uno, forse due; lo stesso la nave che ci soccorse, forse italiana; non appena toccai terra tutto divenne più chiaro: ero arrivato a Catania, ero dunque in Sicilia, Italia; un bus accompagnò un po’ di noi, appena sbarcati, verso Taranto, quell’odissea era finita!».

Finito il dolore, Kevin sogna. «Sento spesso i miei genitori, ci sentiamo più o meno una volta a settimana: le loro voci e quelle della mia sorellina, per me, sono di grande conforto; non ho conosciuto la mia adolescenza, sono stato costretto a crescere, ma i sogni non me li toglie nessuno: un giorno vorrei diventare chef, compiendo il percorso netto, dunque stare in cucina, lavare i piatti, osservare come si preparano le pietanze, fare il cameriere e, infine, diventare uno chef, imparare a cucinare italiano e non solo; ogni notte penso a quella divisa bianca, candida, sulla mia pelle nera: chissà un giorno…».