Daniel, trentuno anni, operatore di “Costruiamo Insieme”
«Tremavo mentre firmavo. Lo cooperativa mi ha cambiato la vita, le sarò sempre riconoscente. Scappato dal Ghana, poi dalla Libia, qui ho trovato una grande famiglia e un posto di lavoro. Ora aiuto mamma e sorelle, loro mi avevano consigliato di fuggire da lotte fratricide generate senza un motivo. La fede mi ha aiutato a trovare la strada giusta».
«Sono scappato dal Ghana per tensioni familiari, ho trovato lavoro in Libia, poi le continue rappresaglie mi hanno obbligato a fuggire ancora, fino a quando non sono arrivato in Italia: lo sbarco, l’accoglienza, il lavoro, un contratto; non sapevo cosa fosse, mentre firmavo mi tremava la mano: ero assunto, avrei avuto uno stipendio, ero emozionato; pensavo al mio Paese, a dissapori familiari, alle continue fughe in cerca di libertà e un cielo sereno…».
Daniel, ghanese, trentuno anni, cristiano convinto, è un altro operatore della famiglia “Costruiamo Insieme”. «Sarò sempre riconoscente alla cooperativa che prima mi ha accolto, poi assistito e, infine, dato un lavoro che mi permette di aiutare i miei familiari, mamma e tre sorelle rimaste in Ghana, papà purtroppo non c’è più, e di guardare con più serenità al futuro».
Era poco più di un ragazzo, smarrito a causa di dissapori familiari. «Dalle nostre parti – spiega Daniel – ci vuole poco che una minima scintilla alimenti un fuoco che una volta divampato diventa sciagura; sono state le mie sorelle, mamma, alla fine a spingermi ad andare via da casa, provare a trovare una strada, un lavoro che fosse dignitoso: lontano dalla mia terra della quale ho nostalgia, non lo nascondo; non c’era molto da scegliere, ci vuole poco dal passare da una discussione alle mani e alle armi, così con il dolore nel cuore ho preso quelle cose che avevo, le ho messe in uno zainetto e sono andato via».
Avvertiva la sconfitta. Nel cuore e sulla pelle, Daniel. «Non voglio dare lezioni, ma certe esperienze – che non auguro a nessuno – bisogna viverle per capire come sia amaro il sapore di una fuga; sono dolori forti, emozioni che non si possono raccontare, ma che non auguro a nessuno. Brutta storia mettere gambe in spalla e fuggire, tante volte un familiare torna malintenzionato per farti del male per farla finita per sempre».
TENSIONI FAMILIARI, PAURA PER MAMMA E SORELLE
Le tensioni familiari si generano per motivi impensabili. «Non c’è mai una ragione precisa – dice Daniel – esiste una ignoranza di fondo, la mancanza di rispetto per una religione, dunque ogni piccola cosa viene ingigantita dall’essere ottusi: un saluto mancato, anche per distrazione, viene visto scioccamente per una mancanza di rispetto; venendo a mancare un genitore devi dar conto a uno zio, anche in fatto di raccolto: esistono leggi non scritte alle quali devi sottostare. Ma posso continuare a dirne tante altre ancora, storie che non hanno visto me e la mia famiglia protagonisti, ma hanno interessato amici, conoscenti; storie finite male, tanto che all’interno di certe famiglie girano armati e se solo si sfiorano ovunque sia, per strada, in un mercato, si sfidano all’ultimo sangue».
A casa di Daniel non volevano certamente questo. «Così, dopo aver pensato e ripensato, ho preso la decisione di andare via: fossi rimasto, avrebbero potuto fare del male a mia madre o alle mie sorelle, una più grande di me, le altre più piccole: non volevo che ciò accadesse, non me lo sarei mai perdonato, allora via da casa…».
La Libia, un primo miraggio. «Un amico a conoscenza della mia situazione familiare mi aveva detto di raggiungerlo, mi avrebbe trovato un lavoro da saldatore, mestiere che già svolgevo in Ghana; non avevo un contratto, ma ogni settimana ricevevo un compenso: tanto o poco non importava, quel denaro mi dava modo di sopravvivere».
Poi qualcosa cambia. Daniel non è vittima di uno di quegli arresti fasulli da parte di civili o militari che in cambio della libertà ti svuotano le tasche. «Ma era come se fossimo agli arresti domiciliari – ricorda – io e gli amici con cui dividevo uno stanzone nel quale dormivamo, potevamo solo uscire per andare al lavoro, se civili e militari ci avessero incontrati in giro fuori orario per noi si sarebbe messa male: non solo galera, ma anche botte, segregazione, lunghi digiuni punitivi…».
L’IMBARCO, UN MILITARE GENEROSO, UNA CHIESA…
Restare in Libia non era più consigliabile, era diventata una vitaccia. «Vivevo solo per lavorare, mi svegliavo prestissimo, uscivo, andavo in locali attrezzati come officine e lavoravo sodo, senza un attimo di sosta… a tarda sera, fine del lavoro, a casa, che poi era uno stanzone e a dormire, per poi ricominciare alle prime luci dell’alba del giorno dopo».
Non tutti i militari sono uguali. «Un poliziotto mi ha aiutato, non ha voluto soldi, mi ha accompagnato ad un barcone sul quale ben presto siamo diventati centotrenta: sbarco a Brindisi, bus, destinazione uno dei Centri di accoglienza pugliesi». Ricorda un episodio, Daniel. Minimizza, ma il coraggio non gli è mancato. «Eravamo appena arrivati, un ragazzo fuori controllo impugnò un coltello minacciando chiunque gli capitasse a tiro: chiesi di parlargli, chiacchierammo a lungo, alla fine lo pregai di consegnarmi il coltello, finì con un abbraccio». Una riflessione. «Non tutta la gente che scappa per mille ragioni da casa ha la mia stessa fortuna, alle spalle ognuno ha storie e reazioni diverse, non siamo tutti uguali». La fede aiuta. «Come la preghiera, io frequento la parrocchia di “Sant’Egidio” a Lama, è una bella comunità, tutti amici, ascoltiamo messa, preghiamo, poi scherziamo». Ha trovato una famiglia, Daniel. «Una grande famiglia, “Costruiamo Insieme”: mi ha cambiato la vita, mi ha offerto un posto da mediatore e sottoposto un contratto, ora posso guardare al futuro con fiducia, una sensazione che per tanti motivi non avevo mai provato prima, ecco perché sarò riconoscente alla cooperativa sociale che mi ha dato una grande opportunità».