Mdhelal, racconta violenze inaudite e fuga

«Mio padre morto per un male incurabile, mio fratello assassinato a diciassette anni, mia sorella rapita e mai più riabbracciata. Mia madre mi implorò di fuggire per evitare la stessa fine. Denunce e processi mai celebrati, è così che va…»

Sembra uno di quei film di Coppola o Scorsese, pieni di sangue. E la vita che costa meno di un proiettile. E’ una storia di una violenza inaudita, protagonista Mdhelal, una trentina di anni, origini bengalesi, passato attraverso India, Grecia, Francia e Italia. Trova ospitalità nel Centro di accoglienza “Costruiamo Insieme” e, poco dopo, un lavoro, in un caseificio. Ragazzo attivo, perbene, fa subito amicizia con i colleghi di lavoro, diventa uno dei più apprezzati e stimati collaboratori del titolare dell’attività nella quale è impiegato. Sorride, dicono gli amici, vederlo ridere pressoché impossibile. E ha tutte le ragioni di questo mondo. I colleghi sanno che Mdhelal ha lasciato il Bangladesh per trovare lavoro, vivere una vita normale, fatta di lavoro e soddisfazioni, anche piccole, non importa. Non è così, purtroppo.

La storia di questo giovanotto, a tratti silente, altre volte un fiume in piena, è di quelle che provocano brividi solo a pensarci. Figurarsi a lui, che questa vicenda l’ha vissuta sulla sua pelle per almeno una quindicina di anni. «Mio fratello, Dulal, due anni più grande di me, aveva diciassette anni: freddato con due colpi alla schiena, lo avevano trascinato in affari sporchi, non poteva più uscirne; mia sorella Nearon, rapita con un violento blitz in casa nostra e usata come strumento di persuasione: di lei, da quel maledetto giorno, mai più traccia; mio padre, purtroppo, a causa di un brutto male ci aveva lasciati soli e con pochi risparmi…».

Anche quei pochi soldi entrano in scena. Non servono, se non ad accelerare la condanna di Dulal. «Non c’era verso di fare uscire mio fratello da quel “business”, un traffico di droga internazionale: offrimmo denaro, quel poco che avevamo per riscattare mio fratello; purtroppo con quel gesto firmammo la sua condanna a morte».

DULAL, DUE “COLPI” ALLA SCHIENA

Una storiaccia. «Lo avevano prelevato da casa – racconta Mdhelal – avevano notato quanto fosse sveglio, quello che faceva al caso loro: Dulal avrebbe dovuto presidiare la linea di confine fra Bangladesh e India; dalle mie parti per certi reati non si scherza, il codice penale prevede condanne feroci, così avevano messo in conto anche che facendo quella sporca attività più di qualcuno ci avrebbe rimesso la vita: mio fratello, un predestinato. Gli avevano subito messo in mano una pistola, come fosse stato un rito, una sorta di patto di sangue: da quel momento la sua vita era compromessa, i suoi compagni di affari avevano un volto e un nome e lui non avrebbe potuto più tirarsi indietro».

Il malessere quotidiano per questo ragazzo che ha il suo destino segnato, esplode in una notte. Ha il volto e la voce di alcuni amici di famiglia. «Arrivarono a casa, al buio, sottovoce le prime parole, sussurrate a mia madre che un istante dopo non riesce a trattenere le urla: mio fratello è stato rinvenuto in un fosso, due colpi di pistola alla schiena, una esecuzione in piena regola».

Più che vendetta, sete di giustizia. «Un amico poliziotto ci consiglia che il sistema per farla pagare cara agli assassini ci sarebbe: una denuncia in piena regola, con nomi, cognomi e dettagli su malfattori, ricatti e arruolamento forzato di mio fratello. Ci vuole coraggio, una cosa che ci aveva lasciato in eredità mio padre: denunciamo capo e complici, che vengono tratti in arresto. La legge in Bangladesh è molto articolata, troppo. La sensazione che si ricava è che, come al solito, l’unica cosa che conti è il denaro: con quello puoi pagarti la cauzione e comprare qualsiasi cosa, anche i processi: infatti a un certo punto spariscono le carte per istruire il processo, così in attesa che la causa venga ricomposta, la banda al completo viene rimessa in libertà».

NEARON, MIA SORELLA, RAPITA

Durante la notte Mdhelal e famiglia, cioè mamma e sorella, subiscono una spedizione punitiva. «Entrano in casa, da porte e finestre, spengono i lumi: in pochi istanti succede di tutto, ci picchiano violentemente e non c’è verso che la mamma implori di lasciare stare i due figlioli – noi appena ragazzini – e di prendersela solo con lei, autrice della denuncia; io avevo provato a trovare scampo sotto il letto, mi afferrarono dalle gambe e mi tirarono fuori riempiendomi di botte: mi risvegliai poco dopo; avevano trascinato via con forza mia sorella: era diventata la loro assicurazione, con lei nelle loro mani noi non avremmo più mosso un dito, ma da quel giorno non abbiamo avuto più sue notizie».

La mamma piange in continuazione. «Adesso implorava me perché fuggissi: parto per l’India, arrivo in Grecia, mi fermo in Francia, ma è in Italia che riesco a trovare un po’ di serenità. Prima di arrivare qui, incontro solo facce preoccupate, mai un sorriso, quando chiedi di una strada oppure offri una parte della tua colazione. E’ qui che ho trovato il mio primo impiego: ho girato e rigirato, non volevo essere un peso, ospite sì ma dovevo attivarmi, trovare qualcosa da fare; così ho imparato un primo mestiere e, soprattutto, un po’ di serenità, la cosa che conforta mia madre a distanza quando le parlo di me e dell’Italia: una famiglia distrutta, mio padre portato via da un male incurabile, mio fratello giustiziato dalla malavita, mia sorella rapita. Di Nearon nessuna traccia. La speranza è quella che un giorno o l’altro possa tornare fra le braccia di mia madre, che sento spesso: è addolorata, mi incoraggia a proseguire nel lavoro e a non cadere in qualsiasi tentazione». Una vita costellata da atti di violenza. «Spero sia finita, sono musulmano, prego perché un giorno mia sorella Nearon possa tornare a casa, sono trascorsi più di quindici anni ma nutriamo sempre la speranza che un giorno la si possa riabbracciare».