Antonio Caprarica, giornalista e volto noto del piccolo schermo 

Salentino, settant’anni appena compiuti e non sentirli. «Anche se il traguardo è sempre più vicino», scherza il popolare corrispondente Rai da Londra e Mosca, Kabul e Beirut. «Fossi costretto a scegliere fra le mie esperienze lavorative, direi senza dubbio la televisione». Venti titoli in libreria, laureato in filosofia, gli manca il contatto con i suoi lettori. «Ho avuto il “blocco dello scrittore”, forse privato della libertà a causa di questa sciagurata pandemia»

Antonio Caprarica, giornalista, scrittore e saggista italiano. Leccese di nascita, molti lo conoscono come corrispondente Rai, soprattutto da Londra, tanto che molti dei suoi titoli (una ventina i libri pubblicati)  hanno come soggetto l’Inghilterra, la politica, lo stile di vita, il romanzo dei Windsor. E’ stato, fra l’altro, corrispondente da Mosca e Parigi, ma anche dal Medioriente, in piena crisi del Golfo, da Kabul a Beirut.

 

Prima di porle qualche domanda riguardo la sua attività di giornalista e scrittore, domanda d’obbligo: come vive la pandemia, cosa ha tolto, cosa pensa abbia insegnato questa sciagura?

«La vivo con sollievo guardandomi attorno, felice di essere scampato – facendo gli scongiuri – a quella tragedia che purtroppo, solo in Italia, ha interessato decine di migliaia di vittime; dunque, sollievo perché finora l’ho scampata, ma costernazione e tanta solidarietà verso quelle famiglie per la sofferenza provata nel perdere le persone amate. E un po’ di rabbia, avendo compiuto il 30 gennaio scorso settant’anni. A quest’età i mesi, i giorni, le ore, in realtà valgono per due, se non per tre rispetto al periodo della gioventù: mi sembra di essere defraudato da questa dannata pandemia. La cosa che più mi manca è il viaggiare, pertanto spero che questa sciagura possa avere una fine, arrivi un vaccino e si possa riprendere la vita di tutti i giorni».

 

Cosa fa un giornalista attivo come lei quando non risponde alle domande di un collega?

«Non posso viaggiare, dunque non posso incontrare lettori dei miei libri, attività che amo moltissimo, avendo una media fra i cinquanta e i cento incontri l’anno; non incontro, dunque, gente che aveva la cortesia e la pazienza di leggere i miei libri. Per dirla tutta, da questo punto di vista siamo più fortunati rispetto ai nostri antenati che hanno vissuto la “spagnola” perché oggi c’è internet, così una parte del mio tempo se ne va in collegamenti, dibattiti, interventi in talk-show televisivi. E’ una limitazione che, per fortuna, l’ingegnosità dell’uomo negli ultimi vent’anni è riuscita a ridurre fortemente. Leggo molto e scrivo, anche se nel primo periodo ho accusato il cosiddetto “blocco dello scrittore” legato probabilmente a quella privazione della libertà cui mi sono sentito sottoposto».

 

Ha scritto per l’Unità, direttore di Paese sera, dei notiziari di Radiouno, direttore della stessa Radiouno. La differenza fra radio, tv, carta stampata. Avesse dovuto fare una scelta?

«E’, in qualche modo, il gioco della torre al quale non vorrei espormi, proprio perché sono state tutte esperienze importanti; ho iniziato con la carta stampata, dalla quale non pensavo di staccarmi; poi sono passato alla tv ed è stato amore a prima vista: stare davanti a una telecamera mi è sembrata una cosa naturale, come appropriarmi subito del linguaggio televisivo senza che lo avessi studiato; la radio è stata un’esperienza tardiva, ma meravigliosa, perché l’effetto evocativo della voce ha il suo fascino: il pubblico ti riconosce dalla voce, ha questa capacità mnemonica che resta anche quando le notizie si dimenticano; stampa, tv e radio sono sostanzialmente tre modi di comunicare straordinari».

 

Fosse costretto a scegliere, non ci sentono.

«Fossi costretto, beh, la televisione: ha una capacità, una totalità di registri che le altre non possono offrire; gli occhi, la voce, dunque il tono e l’accumulo di informazioni che derivano dalla conoscenza, è una ricchezza, una panoplia così ampia e così vasta da essere, forse, imbattibile rispetto alla carta stampata e alla radio».

 

Provo a porle la domanda in altro modo. Cosa l’affascina della scrittura, i tempi brevi o quelli mediamente più lunghi, considerando che i suoi servizi dovevano restare nel perimetro dei tre minuti.

«…Anche meno, purtroppo. Mi rendo conto, a volte, di aver suscitato un certo odio, rabbia nei miei giornalisti ai tempi dei notiziari radiofonici da me diretti: costringevo i miei collaboratori a servizi da un minuto, un minuto e dieci secondi al massimo; esagero, anche la Divina commedia si può sintetizzare in un minuto, ma perdiamo il meglio, le straordinarie sfumature del Sommo poeta; la sintesi è una delle esigenze fondamentali della comunicazione, e non solo perché la famosa soglia di attenzione viene meno dopo venti secondi: la rapidità nella comunicazione audio-video è essenziale per il linguaggio, la grammatica del mezzo. Nella scrittura, invece, rivendico sempre la possibilità del tempo medio-lungo con il compito di riflettere un po’ di più prima di mettere una parola su carta».

 

Fosse stato direttore, avrebbe ritenuto superflua, per amore di sintesi, la domanda sul suo Salento.

«Qui, invece, la sintesi gliela faccio in due parole: amo il Salento. La mia vita, il mio lavoro, la mia passione e la mia curiosità mi hanno portato inesorabilmente lontano dal posto in cui sono nato, però quando è possibile torno volentieri; e non è detto che negli anni che mi restano – il mio amico Walter Veltroni quando parla di età dice che “lo striscione del traguardo è più vicino” – possa trascorrere più tempo nel luogo in cui sono nato e cresciuto».