Nabil, nigeriano, trentadue anni, la cattura, le percosse e l’abbandono

«Una Confraternita di saggi voleva prendessi il posto di mio padre, anziano di una setta che svolgeva funzioni religiose, politiche e giudiziarie. Al mio rifiuto, fui catturato, legato a testa in giù e preso a legnate fino allo svenimento. In Italia le cure, la riabilitazione e via alle stampelle…». Non dimenticare chi soffre, il messaggio del trentaduenne africano: continuate a raccontare le persecuzioni.

«Brutta storia la mia, tornare a raccontarla mi provoca dolore al cuore e al fisico, ne ho passate tante: perseguitato, catturato, torturato, solo perché non volevo dare continuità a quanto aveva fatto mio padre a capo di una congrega religiosa. Fin da bambino, invece, avevo in mente un’altra vita, mia madre si sarebbe accontentata di scappare dalla Nigeria, arrivare anche in un altro Paese africano, purché lontana dagli orrori a cui sarei stato sottoposto».

E’ uno dei tanti passaggi della storia di Nabil, trentadue anni, nigeriano, fuggito più di dieci anni fa dal suo Paese. Perseguitato e torturato, perché alla scomparsa del papà gli adepti di una setta basata sul culto che svolgeva funzioni religiose, politiche e giudiziarie, lo aveva indicato come erede del percorso religioso paterno. Un tribunale presieduto da “saggi”, lo stesso che ha fatto in modo che qualcuno si scagliasse con violenza inaudita proprio contro lui, condannò Nabil.

«Il mio nome, in arabo, significa in qualche modo qualcosa di nobile, onorevole, come se in Italia mi chiamassi Patrizio: non sono io ad aver studiato le origini del mio nome, me lo hanno fatto notare amici italiani che non appena vogliono conoscere qualcosa di più su un qualsiasi argomento, mettono mano al cellulare, digitano qualsiasi domanda e, alla fine, sentenziano: mi spiegarono che ai tempi dell’Impero romano il nome Patrizio, oggi un aggettivo – si dice così? – veniva usato per indicare qualcuno benestante e non mi riferisco alla sola salute…».

 

«OGGI CAMMINO…»

La salute, ecco, Nabil. «Oggi cammino, non senza sforzarmi, avverto continui dolori, specie ad un’anca, un dolore lancinante che riaffiora spesso ricordandomi da dove vengo». E allora, la storia, il dolore, le torture. «Non voglio apparire come la solita vittima, ma credo – ci spiega Nabil – che la gente non debba dimenticare da dove io e tanti miei fratelli veniamo. Non consideriamo l’Italia un Paese ospitale nel quale vivere senza dare nulla in cambio: libertà e rispetto dobbiamo guadagnarceli con la buona volontà, con il lavoro; vorrei che l’Italia diventasse il mio Paese, ma so anche che è giusto rispettare chi, in questo Paese, ci abita, da anni lavora come i suoi genitori e i genitori dei suoi genitori, per costruire un sogno fatto di libertà e benessere».

Cosa è accaduto a Nabil. «Mio padre aveva un ruolo importante all’interno di questa Congrega, sia chiaro non facevano niente di male, ma si ispiravano ad una religione basata sulla lettura degli astri, una filosofia sull’origine e le finalità dell’universo; non mi sono mai ribellato, ma fin da piccolo mi rivolgevo al Cielo, a qualcuno che era al di sopra di qualsiasi essere umano: crescendo ho manifestato la mia fede cristiana, al collo porto una croce di legno, quella sulla quale è stato crocifisso Nostro Signore».

Un aspetto non condiviso, non solo a parole, ma anche con i fatti. «E fra questi ultimi, agguati e persecuzioni cui sono riuscito a sfuggire per puro miracolo, fino a quando un giorno non sono caduto in un tranello, tradito da un mio amico che in cambio di chissà cosa aveva indicato dove mi trovassi: accerchiato e disperato, cercai di sfuggire al primo, al secondo, al terzo uomo, urlavo per darmi coraggio e correvo quando qualcuno mi lanciò fra i piedi un attrezzo tagliente e mi face cadere a terra: sanguinante, fui appeso a un albero, prima legato per i polsi per essere giudicato da un “Comitato di saggi” che aveva già in mente la sentenza. Non avevo via di scampo, dovevo pagare il mio rifiuto: dopo la decisione, mi slegarono dai polsi e mi legarono all’albero per le caviglie a testa in giù; sangue alla testa e legnate a non finire, sulla schiena e sulle gambe, ininterrottamente; in quei momenti avevo solo un desiderio: morire di dolore o essere ammazzato, stremato dal dolore e dal sangue che mi arrivava alla testa».

 

«…MA VOLEVO MORIRE»

Svenne, fu la sua salvezza. «Mi risvegliai – ricorda il trentaduenne nigeriano – svenni daccapo per il dolore: piangevo come un bambino, non potevo stare disteso o poggiato su un fianco, seduto o in piedi, un delirio; fui lasciato moribondo per strada, come se quella brutta lezione fosse stata sufficiente a farmi cambiare idea: una volta riprese le forze convinsi mia madre a prendere i suoi risparmi e comprarci un visto per l’espatrio: dalla Siria, passammo alla Turchia, dopo qualche anno finalmente l’Italia. Qui fui soccorso e assistito».

«Subii più di un intervento chirurgico – ricorda Nabil – per poi essere seguito da un Centro di riabilitazione: mi avevano diagnosticato una grave artrosi, mi misero in piedi, dopo qualche mese finalmente potei fare a meno delle stampelle sulle quali fino ad allora mi ero retto; ho potuto riprendere a lavorare, per una ditta di pulizia, mi occupavo di locali e bagni, poi lavorai nei campi: contratti saltuari, ma la libertà passa anche attraverso i sacrifici, cosa che non mi fa paura neanche un po’. Tornare in Nigeria, per ora non ci penso, al solo pensiero mi assale una paura mista al dolore di quelle ore a testa in giù con tante legnate così da rendermi un corpo in attesa del colpo di grazia: pensare a un viaggio al contrario è la mia più preoccupazione. Dopo l’uso delle gambe, conto di alleggerirmi anche di quel brutto pensiero, quelle torture…».