Boubacar, maliano, musulmano e un desiderio

«Amo l’Italia, anche la Francia è bella, ma l’Africa è nel mio cuore. Morti papà e mamma, i miei zii non mi fecero continuare gli studi: per cinque euro. Volevano mi sposassi con una vicina, ma volevo essere io a scegliere. La fuga, le botte in Libia, ferite che fanno ancora male…»

«Voglio sdebitarmi con l’Italia, Paese accogliente; farei davvero di tutto qui, ma il mio sogno è la mia Africa, un giorno voglio tornare a casa, non necessariamente dove sono nato, in Mali, anche altrove va bene, ma voglio tornare in Africa…». Boubacar, maliano, poco più di venti anni, musulmano, una pertica di due metri, anche più, fa una sintesi della sua storia che coincide con l’approdo in Italia. «Dovessi restare qui, non avrei problemi, mi impegnerei nel lavoro che so fare meglio, l’elettrauto; anche la Francia non mi dispiace».

Spiega il suo punto di vista sull’Italia e la Francia. «Due Paesi simili fra loro, quando studiavo passavo il tempo a fare ricerche, trovavo – e trovo – bello il senso di democrazia che esiste in queste due nazioni: il rispetto per chiunque, che tu sia bianco o nero, siamo tutti fratelli e fortuna o sfortuna non guardano al colore della tua pelle».

Sfortuna. «Non credo molto alla fatalità, ma ci sono stati episodi, due in particolare, che hanno segnato la mia vita: quando meno credevo, questi due argomenti sono diventati il tema principale della mia scelta, della mia fuga dal Mali».

Parla come fosse un libro, si arrampica nel suo italiano già buono. Si aiuta con i gesti, ma rispetto alla lingua parlata, mostra progressi importanti, da non crederci. «Devo questi passi avanti nel mio italiano ancora approssimativo – spiega “Bouba” – a una donna di servizio impegnata in “Costruiamo Insieme”, il Centro nel quale sono stato ospitato: devo molto alla cooperativa, si è presa cura di me, mi ha fatto sentire subito rispettato, quasi coccolato, rispetto a come ero stato trattato a casa mia…».

ITALIANO “APPROSSIMATIVO”

Usa l’aggettivo “approsimativo”, non è da tutti, mostra un bagaglio culturale più che rispettabile. Proviamo ad approfondire nel carattere e nei motivi della sua fuga. «Ho perso padre e madre – racconta Boubacar – quando ero ancora piccolo, un dolore che non si può spiegare: perdi buona parte di te stesso, ti manca l’insegnamento, il loro amore: fossero ancora in vita, sicuramente non sarei fuggito, mi sarebbero stati accanto, i genitori pensano sempre a dare il meglio ai propri figli».

Cosa accade, la scuola comincia a diventare un peso. Una cosa per volta. «Quando ho scelto la fuga, ho salutato mia sorella: non potevo più restare lì, venivano a mancare le cose essenziali per la mia crescita; la scuola, per esempio, la frequentavo con profitto, prima che i “miei” morissero, avevo ottimi voti: la mattina andavo a scuola e studiavo, il pomeriggio frequentavo un’officina dove apprendevo i primi insegnamenti per fare l’elettrauto; miei zii mi avevano preso con loro, mi avevano mostrato subito grande affetto, poi qualcosa è cambiato nei miei confronti: piccolo com’ero, e non lavorando, avevo bisogno di cinque euro – non è una cifra esagerata in Mali – con cui comprare penna e i quaderni sui quali scrivere appunti e studiare; un brutto giorno questo loro sostegno è venuto a mancare, di colpo sono diventati ostili nei miei confronti, come se volessero provocare una qualsiasi discussione e avere un motivo con cui allontanarmi: il loro affetto, sbocciato di colpo era sfiorito nello stesso modo, senza una ragione…».

Provassimo a cercarla, una ragione. «L’episodio che ha fatto il paio con quei cinque euro, forse, il rifiuto di allacciare un rapporto con una ragazza vicina di casa: nonostante fossi un ragazzino, loro – i miei zii, i vicini di casa, genitori della fanciulla – avevano già pensato a tutto, sarebbero diventati parenti, gli uni degli altri; non ne facevo un fatto di bellezza – una donna può o meno piacere – ma una questione di principio: avevo ancora da imparare, fidanzarmi o sposarmi la vedevo una cosa fatta troppo in fretta, volevo pensare serenamente al mio futuro: avrei potuto scegliere di vivere solo, per esempio…».

FUGA DA UN MATRIMONIO COMBINATO

Dunque, la fuga. «Non avevo altra scelta, salutai mia sorella, promettendole che un giorno sarei tornato – e tornerò davvero – ma non era il più il caso di vivere con addosso una forte tensione, con il pericolo che una parola fuori posto provocasse un litigio e poi una violenta discussione: non ci stavo, non volevo cascarci, così feci i bagagli – un borsone, non di più – e andai via».

Ancora una volta, fortuna, sfortuna. «Sfortuna – non era difficile capire da cosa fossi perseguitato – arrivai in Libia; fermato da miliziani, pestato a sangue, rinchiuso insieme ad altri in uno stanzone: non avevo soldi per riscattarmi, né parenti disposti a pagare la mia scarcerazione: lavoravo e prendevo botte, prendevo botte e lavoravo; quegli uomini che tenevano me e altri segregati in quei locali, picchiavano duro: avevano un solo principio, usare le armi come fossero un martello; non si accontentavano di infliggerti uno, due colpi alla testa e farti un male che non si può raccontare: volevano vedere il sangue, aprirti una ferita profonda, solo allora si sarebbero fermati…».

Alla fine, un raggio di sole. «Prima della fine, un’altra fuga, lavoretti, pochi soldi, utili a pagare il viaggio a bordo di un gommone: in settanta, tutti stretti come fossimo in una cassetta di frutta, ammassati; l’arrivo in Italia: finalmente il vento che cambia…».