I ragazzi di “Costruiamo” si “aprono” a scuola
Ospiti dell’istituto “F.S. Cabrini” di Taranto, hanno incontrato gli studenti. «Attenti alle fake-news, non sempre è tutto oro quello che luccica. In Italia perché perseguitati da guerre. Non vogliamo essere scambiati per “mantenuti”». Progetto “Grande I”, “I” come Integrazione. I loro racconti.
«Vedete, questo cellulare che ho in pugno, non me lo ha regalato nessuno, non è nemmeno frutto di sacrifici da pocket money, fosse stato per quello non avrei mai potuto acquistarlo: l’ho comprato con i miei risparmi, il frutto del mio lavoro». Uno dei nostri ragazzi invitati all’Istituto “F. S. Cabrini” di Taranto, spettina subito i giochi. Sembra un colpo di scena, studiato o meno, non lo sapremo mai, di sicuro i ragazzi sanno il fatto loro. Come gli studenti della scuola tarantina della quale sono ospiti. Gli alunni, dal cantono loro, prestano subito attenzione agli ospiti invitati dal loro dirigente scolastico, Angela Maria Santarcangelo, in collaborazione con il CPIA, il Centro provinciale per l’istruzione adulti presieduto da Patrizia Capobianco.
L’incontro rientra in un più ampio progetto, «La grande “I”» (“i” come integrazione), un progetto ideato dalla docente Arianna Crivelli. Fra i ragazzi, Boubacar, Souleimane, Daniel e Amara. Alcuni, vecchie conoscenze di “Costruiamo Insieme”. Ragazzi ospiti del Centro di accoglienza, collaboratori, operatori, adesso anche dipendenti di piccole attività, ma con in testa un solo scopo: l’integrazione. Dimostrare ai più scettici che non sono sbarcati in Italia in cerca di asilo e sostegno economico.«Non fatevi ingannare dalle fake news – dice uno degli “ospiti” – ne circolano tante, il più delle volte ci danno contro: raccontano una realtà, come dite qui… – virtuale, che esiste solo nella mente e nella testa di leoni da tastiera che mettono a cuocere notizie tanto al chilo; oggi siamo qui per raccontare le nostre storie, storie simili una all’altra, scaturite dalla povertà e dalle persecuzioni, non solo politiche ma anche da faide familiari, dalla fuga da “giustizia fai da te”: attenzione, dunque, a quanto vi racconta, non è tutto oro quello che luccica!».
E qui i ragazzi del “Cabrini” mostrano di non essere colti proprio di sorpresa. Hanno studiato il tema, l’integrazione. Hanno realizzato clip e argomenti che proiettano e di cui parlano nel corso dell’incontro amichevole. Fra i ragazzi neri, che a fine incontro saranno oggetto di richiesta di selfie, c’è anche un disc-jockey. Uno che scrive e canta roba seria, Djallo Souleimane. «Abbiamo le stesse ambizioni e le stesse debolezze di ciascuno di voi – dice – io stesso amo la musica, per me è vita; ho fatto stampare un bigliettino da visita, ne faccio circolare un po’, qualcuno mi chiama, qualche altro no: nel tempo libero mi diverto e metto qualche soldino da parte; qualcuno di voi avrà la sua stanzetta: io, la mia, me la porto dietro come un troller, è la mia consolle, il mio bagaglio a mano». Scatena simpatia il ragazzo che ha dedicato una canzone alla sua seconda “terra”, quella di adozione, l’Italia. Guineano, poco più che ventenne, Souleimane si “apre”. Dice anche cose che i ragazzi non chiedono, ma solo per rispetto. «Ve lo dico io: la gente nel mio Paese conta poco». «Il mio senso di disperazione – prosegue – non finirà mai; la fuga, poi, è il sistema peggiore per lasciare la tua terra e la tua famiglia; qualcosa che mai avrei pensato di fare quando da ragazzino ho cominciato a stare fra i banchi di scuola: non è questo che ci insegnavano, il rispetto era alla base di tutto, invece ecco come è andata a finire…» «Quanto vi danno per pagarvi la colazione i vostri genitori?». Domanda Boubacar mentre due studentesse gli chiedono un selfie a fine incontro. «Cinque euro? Bene, dovete sapere che io sono fuggito dal mio Paese proprio per cinque euro! Quella somma equivale al costo di una penna e un quaderno, che però i miei zii si rifiutarono di comprarmi». Boubacar, coetaneo di Souleimane, maliano, riprende la storia appena finito di raccontare agli studenti. «La mia, una storia di umiliazioni, prigionia, botte alla cieca e fughe: avevo perso mamma e papà; non sapevo più dove andare e i miei zii, che allora ringraziai per avermi accolto sotto lo stesso tetto, poco tempo dopo mi dissero che quella spesa per continuare a farmi studiare non potevano permettersela; intanto nel mio Paese succedeva di tutto, così scappai. Sono in Italia dall’aprile dello scorso anno, sto imparando l’italiano, mi dicono che sono a buon punto…».
«La mia, una vita fatta di corse», lamenta Daniel, prima di quello che lui stesso considera «un colpo di fortuna». «Scappo da quando ero piccolo; sono fuggito dal mio Ghana: motivi familiari; avevo trovato lavoro in Libia, ma anche lì, continue rappresaglie, tanto da obbligarmi a fuggire ancora; poi, finalmente, l’Italia: sbarco, accoglienza, lavoro, un contratto con la cooperativa “Costruiamo Insieme”; non sapevo cosa fosse, ma mentre firmavo mi tremava la mano: ero assunto, avrei avuto uno stipendio! In pochi istanti rivedevo il film della mia vita: il mio Paese, i contrasti familiari, le continue fughe alla ricerca di un cielo sereno, quello che mi avevano spiegato fosse la normalità».
Fine della lezione. Una delle tante che hanno luogo nelle scuole medie della provincia, ci spiega Mercedes Corbelli. «Una serie di attività che stiamo svolgendo in molte scuole: al “Cabrini” la prima lezione, la seconda a una settimana esatta di distanza; su tutto il lavoro e gli incontri fin qui svolti c’è un blog: scatti fotografici e momenti di confronto che hanno il compito di annullare le distanze fra studenti e ragazzi giunti da Paesi lontani; ragazzi come loro, ma con alle spalle storie di fuga e sciagura».