Patrick, italiano, origini congolesi
«Mio padre è andato via dal suo Paese, ha girato Medio oriente ed Europa, prima di stabilirsi qui. Lui e i miei nonni mi hanno insegnato ad abbattere i confini, non solo geografici. Studio e mi relaziono con i miei giovani colleghi: stiamo cominciando a cambiare il mondo, in meglio…»
Patrick, ventuno anni appena compiuti. Di origini congolesi, risiede in Italia fin da giovanissimo, ma si sente cittadino del mondo. «In realtà le frontiere – dice – sono sempre state una pessima idea, e parlo non solo dei confini territoriali, ma anche di quelli mentali; non voglio fare filosofia spicciola, ma questa idea di sentirmi libero me la porto dentro fin da piccolo, come fosse l’eredità consegnatami dai miei nonni, uno dei quali aveva una modesta piantagione di caffè: poca cosa, sia chiaro, lui stesso era proprietario e dipendente, il raccolto era quasi sufficiente a sfamare due famiglie, ma vivere con la paura che una volta il raccolto andasse perso a causa del maltempo o saccheggiato, non era un bel vivere, per questo piuttosto che edere figli e nipoti vivere alla giornata, quando andava bene, i nonni, nonostante avessero il dolore nel cuore, indicarono ai “miei” la strada per la libertà: ho seguito l’insegnamento di papà che preparò lo zaino e partì per studiare in un Paese ospitale e prendersi un titolo di studio che potesse metterlo in condizione di aiutare non solo la famiglia che avrebbe creato, ma anche i ragazzi nelle sue, e mie, stesse condizioni».
Patrick gira per le stradine della Città vecchia, indossa una mascherina, teme il covid, per se stesso e per i colleghi più giovani che ha incontrato all’esterno della sede universitaria “Aldo Moro” di Taranto. Massima accortezza nel saluto, anche questo rigorosamente previsto da protocollo: pugno appoggiato a quello dell’interlocutore o avambraccio contro avambraccio.
RUANDA, ZAIRE, FINALMENTE CONGO
Patrick, Ruanda e Burundi, Zaire, finalmente Congo. «I due Paesi originari che hanno generato Zaire e, oggi, Congo, rientravano nel dominio coloniale belga. Non esistevano confini geografici, ma su una cosa i belgi erano intransigenti, colonizzatori e colonizzati erano due cose, si dice, distinte e separate; in breve, i miei familiari che abitavamo la loro terra, eravano un’altra cosa: erano una razza a parte, inferiore e da dominare. Questo il punto di vista dei bianchi. Mi è sembrato un buon motivo seguire la strada di mio padre, mettermi sotto e studiare come un matto: la mia unica missione sarebbe stata esclusivamente quella di migliorare la condizione non solo mia, ma anche dei miei conterranei, e non parlo dei quattromila congolesi oggi residenti in Italia, ma di tutti i fratelli africani: figuriamoci, parlo di abolire i confini fra bianchi e neri, e che faccio, compio una distinzione fra gli stessi neri? Non se ne parla nemmeno…».
Ventuno anni e avvertire il senso di responsabilità. «Devo a mio padre questo insegnamento. Non si è mai tirato indietro di fronte a qualsiasi cosa. Se c’era da partire, per migliorare più che la posizione sociale quella culturale, papà faceva armi e bagagli e partiva. Era il più grande della sua famiglia per questo gli toccava anche mettere in conto di partire e lasciare i suoi genitori. Studiò per qualche anno girando da un Paese all’altro, dalla Francia all’Arabia, fino a trasferirsi in Italia. La svolta a Parigi, è lì che papà incontrò mamma, bianca e italiana. Fine Anni 90, Bologna diventò casa mia. Se i nonni mi hanno insegnato a distanza che non devono esserci confini di nessun genere, papà mi ha trasmesso che bisogna mettere in conto anche andare via da un Paese del quale sei ospite: altrove può esserci bisogno di te, dell’esperienza che ti stai facendo anno dopo anno».
NON C’E’ PIU’ TEMPO
Non C’è più tempo, bisogna passare all’azione, scegliere i tempi più impegnativi. A Taranto, più che per motivi di studio, racconta la propria esperienza ai colleghi pugliesi, in pochi, stipati in una enorme Aula magna nel rispetto delle norme anticovid, oppure in collegamento con il pc. «La voglia di spendermi per il prossimo, qualsiasi sia il colore della sua pelle, sboccia fra i banchi del liceo, non appena avevo cominciato a frequentare l’istituto. A qualche anno di distanza, posso dire che noi ragazzi stiamo cambiando il mondo: non abbiamo preclusioni mentali verso qualsiasi tipo di diversità, dal colore della pelle agli orientamenti sessuali, proseguendo con la fede religiosa. Però bisogna studiare e continuare a migliorarci, quando mi pongono qualche domanda rispondo che il mio futuro può essere fra associazioni di volontariato e altre attività “no profit” verso chi ancora avverte, forte, il disagio».
Progetti e ambizioni di Patrick e i suoi fratelli. «Mettere sul tavolo idee e progetti internazionali – conclude il ventunenne di origini congolesi – a favore dell’ambiente, per esempio, del progresso sollecitando una partecipazione attiva dei ragazzi, le nuove generazioni. L’obiettivo è il comprendere cosa vogliamo fare e cosa vogliamo diventare. C’è da lavorare parecchio, sento la sensazione che i ragazzi della mia generazione vogliano buttarsi a capofitto nelle storie, nei problemi più complicati da risolvere: ci vorrà più tempo, ma di tempo non ne abbiamo così tanto, così testa bassa e pedalare».