Antonio Conte, attore tarantino, si racconta

«Ho fatto tv e cinema, ma le tavole del palcoscenico sono un’altra cosa. La mia vita cambia grazie a una collega, Giusy Pepe, e Aldo Trionfo. Mario Carotenuto il mio maestro, mostruoso sul palco, con lui bastone e carota. E quando sei affiatato ci scappa anche il “salvataggio”. Verdone e Abatantuono, matti impareggiabili». Gli spot in Italia e all’estero, campagne di successo e un “Marco Antonio” fra cavalli, biga e piramidi: Mc Dondald’s, Amadori, Tirrenia… 

Antonio Conte, tarantino, quarant’anni di teatro. Una storia cominciata nella sua città, diretto da Italia De Gennaro per la compagnia “Teatro per noi”, per proseguire con una collega, Giusy Pepe, che per accedere all’Accademia d’arte drammatica “Silvio D’Amico”, lo vuole come spalla nel suo saggio d’ingresso. Oggi, Antonio, invece dei baffi ha la barba, ma solo per forma di pigrizia, dice. Dopo aver interpretato il dirigente di un avviatissimo studio legale, sempre tirato a lucido, ha reagito così. Ancora qualche giorno, poi rasoio e tutto come prima.

Conte, la prima esperienza professionale.

«La prima tappa, occasionale e fortuita, forse me la sono anche cercata, chi può dirlo. Novembre 1981, vivevo a Taranto, diplomato avevo partecipato e vinto un concorso pubblico, svolto il servizio militare, al ritorno cominciai a lavorare. All’epoca facevo teatro con la professoressa Italia De Gennaro e il gruppo “Teatro per noi”: si lavorava; una collega, Giusy Pepe, decise di partire ed entrare nell’Accademia di Arte drammatica “Silvio D’Amico” di Roma.

Fra le prove, un monologo e un “pezzo” a due. Andai a Roma per farle da spalla ne “Il lutto si addice ad Elettra” di Eugene O’ Neill: a fine prova, Aldo Trionfo, direttore dell’Accademia, mi chiese “Lei, Conte, nella vita che fa? Non le piacerebbe fare l’attore?”. Alla mia risposta affermativa, “Bene, domattina vada a piazza dei Cinquecento, c’è il nostro amministratore, parli con lui e firmi il contratto”. Ignaro su cosa potesse essere un vero contratto, il giorno dopo seguii le indicazioni di Trionfo: dopo la firma, in serata treno per Taranto e telefonata al posto di lavoro per comunicare la mia decisione, valigia e ritorno a Roma. E cominciata così “la Grande avventura”».

Un opuscolo, “Il mercante di Venezia”, Stagione teatrale 85-86 Nuova Italsider, protagonista il grande Mario Carotenuto. Conte, nella prima edizione Salanio, nella seconda il Principe del Marocco.

«Di questo spettacolo abbiamo fatto qualcosa come 240 repliche. Mario, un grande, la gente lo conosceva come protagonista di un cinema leggero, ma in teatro era mostruoso: ha lavorato con Giorgio Strehler con “L’Opera da tre soldi”, l’edizione di “My fair lady” passata alla storia, insieme con Delia Scala e Gianrico Tedeschi, vinto un Nastro d’argento per “Lo scopone scientifico” accanto a Sordi. Mario è quello che si dice un “signor attore”».Conte Copertina - 1

Cosa ha imparato dal maestro?

«A stare sul pezzo, sempre, a rispettare le consegne. Capitava che dietro le quinte ti facesse un segno d’intesa, ma se avevi ecceduto poteva rifilarti una bastonata sulle gambe. Carotenuto non era infastidito dall’errore, ma dal fatto che tu non te ne fossi accorto; severo anche con se stesso, se anche lui aveva commesso un errore, lo confessava ai colleghi: il principio qual era: se comprendi il tuo di errore, non lo commetti più e metti più sereno chi sta sulla scena; capire l’errore e non ammetterlo lascerebbe il collega nel dubbio. La memoria è strana: se una battuta la metti subito a registro, rischi di portartela così nelle repliche successive».

Un ricordo del maestro, un richiamo severo.

«Stavamo rappresentando “Aulularia” di Plauto. Io e Gino Nardella eravamo i due servi. Il collega una sera volle concordare una battuta fuori dal copione per prenderci l’“effettino”. Facemmo come aveva suggerito lui: risatina dalla platea, era in qualche modo andata bene. Fine primo tempo, Giorgio Catani, direttore di scena, già collaboratore di Visconti, mai del “tu”: “Signor Conte e signor Nardella, dal signor Carotenuto”. Mario non ci dette il tempo di parlare: bastone sul tavolo e urla, quello che ha detto non lo ripeto; era pericoloso anche fisicamente, Mario. Ci sciacquò come due bottiglie vuote! Fine del cazziatone, Carotenuto ci fa: “L’idea è buona, domani ci vediamo mezz’ora prima e la proviamo, ve la metto a posto e la fate, ma non vi azzardate più a decidere cose da soli!”. Aveva ragione. Era generoso, mi suggeriva dove prendere l’effetto: mi dava tre giorni, se non funzionava la battuta tornava nelle sue mani».

La “pacca”, invece?

«Ci siamo reciprocamente “salvati” in più occasioni; una sera stavamo facendo “L’Avaro” di Molière, gli sfuggì una battuta, lo soccorsi: “Se permette – dissi in scena – io avrei un’idea…”; la sua risposta: “Lei deve avere un’idea!”. Ci salvammo».

Il lavoro che dà più tensione: tv, cinema, teatro?

«La tv è bella se hai la diretta, senza è come bere un bicchier d’acqua: fermi la registrazione, riprendi; lo stesso il cinema. Non hai tempo, però, di studiarti certe cose come quando fai teatro, dove più repliche fai, più migliori il personaggio che interpreti. Ma l’emozione che ti dà il teatro non te le dà nessun altro impegno, cinematografico o televisivo che sia. Nemmeno alla duecentoquarantesima replica: anche in quell’occasione è cambiato il teatro, il pubblico, il tuo stato d’animo».

Al cinema, con Verdone e Abatantuono. Con registi importanti, la Wertmuller, Brass.

«Il cinema è divertente. Un branco di matti, Verdone, come Abatantuono, un gran bel compagno; tragedia, durante le riprese di “C’era un cinese in coma”: all’incoronazione della Miss, vento e pioggia finti, provocarono davvero danni incalcolabili, scoppiavano riflettori e volava di tutto, anche il disappunto di Carlo».Conte articolo 03

Una ventina di spot televisivi. Fra questi, “Tirrenia”, “Mc Donald’s”, “Pollo Amadori”.

«Avevano pensato di realizzare uno spot per ciascun mercato, fui scelto fra numerosi candidati. La pubblicità è ancora una cosa buona, in quanto decidono quelli che mettono i soldi. Difficilmente influenzabili, dunque, dall’intervento dell’amico dell’amico… Là ci si fa male, una campagna pubblicitaria sbagliata in termini economici diventa un bagno di sangue. Per la “Tirrenia”, tre giorni di lavorazione, tanti, girai uno spot tanto complicato quanto bello. Al produttore italiano una settimana dopo venne la brillante idea di rimontarlo, nella nuova versione non piacque fu ritirato a colpi di carte bollate».

Negli Stati Uniti è diverso?

“Molto. Ho girato in una settimana quanto in Italia realizzi in mezza giornata, questo per dire quanto siano meticolosi. Interpretavo Marco Antonio, cavalli, biga, piramidi alle mie spalle; in Italia in una settimana quasi ci fanno un film…

Pollo e tacchini “Amadori”. Diretto da Marcello Cesena, un genio, i Broncoviz e Crozza, Dighero, la Signoris, per intenderci. Ottimo spot. Avanzammo richieste lecite, non esagerate, ma Amadori decise metterci la faccia, essere il protagonista dei suoi spot, come Rana aveva fatto per i suoi tortellini. Purtroppo non avevano lo stesso appeal e non ci fu il ritorno sperato: le campagne pubblicitarie sono una cosa seria, durano trenta secondi e devi lasciare subito un segno. Ma il committente è il cliente, dunque ha sempre ragione ed è padrone di farsi male».

Più che un film, uno spot già visto.

“Quello con “ChanteClair”, sempre diretto da Cesena. Cinque anni di programmazione, una bomba. Richiamati non appena scaduti i cinque anni legati ai diritti, avanzammo appena un ritocco economico sul contratto: rifiutato, hanno girato lo stesso spot con regista e attore diversi, due settimane dopo tolto dal mercato e andati in onda con una pubblicità eseguita in elettronica”.

Qual è l’emozione, la sensazione del pubblico attento o disattento?

«Difficile codificarlo, ma l’esperienza prova a farti capire se le seicento, ottocento persone in sala ti stanno seguendo. Hai una sensazione: se il pubblico ti ha preso e se tu hai preso lui. Ma siamo sempre nell’ordine delle sensazioni. Se non scatta quella molla, lo spettacolo diventa faticoso. Se al pubblico non riesci a far comprendere la storia portata in scena, anche la commedia più brillante diventa un dramma. Con gli anni impari a comprendere il silenzio in sala, se chi è in platea è smarrito o preso dal lavoro che stai rappresentando».

Qual è il segreto per far sentire la propria voce fino all’ottocentesima poltrona?

“Lo studio, non esistono segreti. Ci sono attori che hanno fatto un buon film, una buona fiction, ma hanno una voce che non supera la terza fila e, allora, “archetto” (microfono, ndr) per tutti; detto del genio Carmelo Bene, che utilizzava il microfono per assecondare i suoi lavori teatrali, o Cosimo Cinieri, il teatro non puoi farlo con i microfoni; i grandi attori una volta partivano dal teatro per poi interpretare gli sceneggiati: Salerno, Ferzetti, Vannucchi, Mauri, Lavia, Pagliai, Rigillo, Zanetti e altri; oggi, purtroppo, assistiamo a dinamiche opposte: dallo sceneggiato gli attori passano al teatro, così assistiamo a primedonne che bisbigliano, si parlano addosso perché non hanno coltivato in modo basilare le tecniche del teatro».