
«Taranto nel cuore»
Rocco Papaleo, il teatro, il suo film più bello
«“Cozza tarantina” a parte, celebre battuta in un film di Checco Zalone, qui ho girato “Il grande spirito” diretto da Sergio Rubini». L’attore lucano parla di “Peachum” in teatro, ma ricorda anche le riprese realizzate in città. «La pandemia non ha premiato quella pellicola come invece avrebbe meritato». «Le tavole del palcoscenico sono il luogo della costruzione, il grande schermo la celebrazione dell’attore», dice il protagonista di uno dei titoli della Stagione teatrale di prosa
Claudio Frascella
«Cosa mi lega a questa città, Taranto: della “cozza tarantina” diventata un tormentone grazie al film di Checco Zalone, “Che Bella giornata”, nel quale interpreto suo padre, mi piace ricordare il teatro Orfeo, il Tatà, belle esperienze: poi il mio più bel film…».
Breve pausa. Rocco Papaleo è così, non parla di corsa per non offrire il fianco ad interventi che interrompano un concetto. E’ il suo ritmo naturale al quale non pensa nemmeno minimamente di rinunciare. E’ nel foyer del teatro comunale “Fusco”, con il cast incontra il pubblico, modera la giornalista Monica Caradonna, introduce il direttore, Michelangelo Busco. Papaleo è il protagonista di “Peachum: un’opera da tre soldi”, uno dei titoli della Stagione invernale di prosa del “Fusco” e spin-off di una delle opere teatrali più avvincenti di Bertolt Brecht, autore, regista, interprete Fausto Paravidino.

foto Aurelio Castellaneta
Dunque, il suo più bel film e Taranto.
«Ho girato proprio qui il mio più bel film, “Il grande spirito”, diretto da Sergio Rubini: non ci fosse stata di mezzo la pandemia questo titolo avrebbe avuto un’accoglienza più generosa nelle sale cinematografiche, ma è andata così e se sto qui a parlarne a tre anni di distanza, vuol dire che quello è stato il film al quale tengo di più, per il personaggio interpretato, se permettete la mia prova d’attore magistralmente diretto da Rubini…».
E, allora, insistiamo sul profilo impegnato. Cosa c’entra lei con il teatro “serio”?
«E’ una risposta che non riesco a dare: tutto quello che faccio in ambito teatrale, televisivo o cinematografico, è serio, nel senso che ci metto il massimo dell’impegno; pertanto non cambia l’approccio, prendo sul serio questo gioco che mi è stato concesso di realizzare».

foto Aurelio Castellaneta
Mai interpretato, nemmeno per gioco, un ricco borghese, come le capita per “Peachum”.
«I personaggi che ho deciso di interpretare cucendomeli addosso, in effetti, non hanno mai avuto questa cifra; forse piccolo-borghese, un insegnante piuttosto che un prete, per il resto film minori nei quali non sono stato chiamato a dare questa profondità».
Cosa significa rinunciare alla comodità di fare del cinema, nel senso che la location è quella e non si prevedono eccessivi spostamenti rispetto a un tour teatrale.
«Mi conoscono come interprete cinematografico, ma ho provato spesso ad alternare questa mia attività con quella teatrale: il teatro è la condizione nella quale si matura, ti consente di evolvere in un lavoro nel quale c’è sempre da imparare, proprio per il numero di prove, confronti che portano a discutere, lavorare sulla parola compiendo un lavoro artigianale che il pubblico condivide sera dopo sera: le tavole del palcoscenico sono il luogo della costruzione, il grande schermo la celebrazione dell’attore».
Non sei autore e regista, che effetto fa essere diretti?
«Sono partito lasciandomi guidare, ma Paravidino vuole che durante il percorso si lavori su alcuni meccanismi sulla definizione di quello che io e i colleghi interpretiamo; all’inizio ero più guardingo, ho cercato di assumere una modalità, uno stile che successivamente ho assorbito dando anche qualcosa di mio, comunque sempre organico al progetto».