Anche fare la spesa è un problema etico
Al pari di quanto si è verificato in tanti altri Paesi africani, anche in Tanzania l’economia ha subito profonde trasformazioni nel periodo di dominazione coloniale, che tra l’altro fu duplice, tedesca prima, inglese poi. Durante questi anni venne introdotta e successivamente potenziata l’economia di piantagione (affidata però a stranieri, europei e indiani). Agli africani rimase, completamente trascurata, l’economia di villaggio basata su un’agricoltura di sussistenza. Divenuta indipendente nel 1964, la Tanzania scelse una via di sviluppo socialista e fortemente basata sulle comunità locali, mirante alla creazione di una società senza classi e più vicina possibile a quella esistente negli antichi villaggi tribali. Il Paese avviò programmi ambiziosi: nel tentativo di liberarsi dalle ingerenze straniere e potenziando le proprie strutture produttive, tentò di elevare, con cospicui interventi pubblici, il livello di vita della popolazione, soprattutto di quella rurale, che rappresentava la stragrande maggioranza dei tanzaniani. Nello stesso tempo il governo mirò a incrementare la produzione agricola e a far decollare l’industria nazionale. Lo strumento scelto per rendere operativa questa politica economica fu l’istituzione delle Ujamaa: cooperative di villaggio, dotate di scuole, di dispensari, talune anche di piccole industrie che lavoravano i prodotti locali e nelle quali venne man mano avviata la popolazione. Il governo nazionalizzò gran parte delle piccole e medie aziende agricole senza però mai interamente abolire la proprietà privata. Quando però dal 1973 alla crisi economica mondiale si aggiunsero ripetute calamità naturali (la terribile siccità che ha devastato gran parte dell’Africa, distruggendo pascoli e decimando i capi di bestiame), il governo si trovò nella necessità di ridimensionare i propri iniziali progetti e nello stesso tempo di ricorrere in crescente misura ai finanziamenti esteri, che si tradussero con il tempo in una forma più o meno larvata di dipendenza. La fine della politica socialista fu ufficializzata nel 1986 quando l’economia tanzaniana ebbe una svolta liberista accogliendo finanziamenti dalla Banca Mondiale e, successivamente negli anni Novanta del Novecento, aprendo all’intervento privato anche settori come quello commerciale e bancario.
L’economia del Paese era ormai diventata dipendente e schiava degli aiuti, meglio, investimenti internazionali.
I terreni migliori, ormai, sono destinati alle colture d’esportazione gestite da grandi multinazionali straniere concentrate sulla produzione dell’olio di palma e dell’olio di semi. Il commercio interno è fortemente limitato dal modestissimo reddito percepito dalla stragrande maggioranza della popolazione costretta a migrare: oggi, la paga giornaliera è passata dai due dollari di qualche anno fa ad un dollaro!
L’olio di palma, in particolare, contiene il glicidolo esterificato, sostanza considerata cancerogena. Ne contiene quantità sei volte superiori all’olio di mais e 19 volte superiori rispetto alle miscele di oli vegetali per friggere: 4000 volte di più dell’olio di oliva. I dati dell’Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) sono preoccupanti: in Europa tutti i bambini consumano tale contaminante più della dose giornaliera tollerabile.
Ma al cospetto di enormi guadagni prodotti da pratiche schiavistiche di sfruttamento delle persone anche la salute dei bambini può essere sacrificata insieme ad intere popolazioni depredate.
Se i tempi del colonialismo sono superati, oggi siamo di fronte ad un neo colonialismo più spietato e brutale con un occidente cieco capace di inventare anche la categoria del “migrante economico” al quale viene precluso l’accesso.
Posto da un punto di vista etico e morale, anche entrare in un supermercato per fare la spesa è diventato un problema serio.