Un festival diventato un ponte fra due edizioni di Domenica in
Canzoni col contagocce, affermano personaggi e non successi internazionali. Il più popolare rocker italiano racconta il suo intervento doppio. «Raccolsi l’invito di Gianni Ravera, il patron, che aveva capito tutto: da lì ebbe inizio tutto…»
Parte il Festival di Sanremo. Vi risparmiamo banalità e luoghi comuni. Non siamo TV Sorrisi e canzoni, la rivista che da anni, come desiderava il direttore dei direttori, Gigi Vesigna (tre milioni di copie vendute ogni settimana) pubblica la foto d’insieme dei partecipanti alla più popolare kermesse canora. Colpa o merito di Baudo, punti di vista, se ci siamo ritrovati la rassegna canora (un tempo vetrina del meglio, o pressappoco, della canzone italiana) in versione extralarge. Era abbandonata al suo destino, quando Superpippo, prima di essere dimissionato perché considerato “nazionalpopolare” dall’allora presidente Rai Enrico Manca, andò prima da Berlusconi (contratto principesco), per poi abbandonare la concorrenza sfiduciato dagli ex colleghi. Da un Festival che durava mediamente tre giorni, Baudo si inventò formule sempre diverse fino a trascinare la rassegna a fare da ponte a due puntate di “Domenica in”. Uno stillicidio. Si alzarono gli ascolti, Sanremo diventò una sorta di “Fantastico”, le canzoni diventarono una cornice. A farla da padrone, superospiti – anche italiani, che si guardavano bene dal partecipare alla gara – fra presentatori, attori, cantanti, star internazionali, calciatori, perfino Premi Nobel. Insomma, non un Festival, ma tutta un’altra cosa.
Nello sfogliare le centinaia di articoli apparsi sulla stampa e sui siti, ci piace segnalare un articolo di Cristiano Sanna (Tiscali), che dà una diversa lettura, meglio una stesura, rispetto al resto dei colleghi. Certo, il sito che offre condizioni interessanti per quanti navigano su internet, scrive altro a corredo della partenza di Sanremo, come è giusto che sia. Ma è l’angolazione che dà al suo intervento, rispolverando una partecipazione (anzi due, “Vado al massimo” la prima, “Vita spericolata” la seconda) proprio alla passerella canora scrivendo nientemeno che di Vasco Rossi.
«COME SE AVESSI ACCETTATO…»
“Tutti lo vogliono anno dopo anno – scrive Sanna – e lui rifiuta, ogni volta: sono passati quarant’anni di una lunga, ironica vendetta che in occasione dell’edizione numero 72 di Sanremo si gioca tutta sul filo della suspense”. Vasco ha accanto due amici, Guido Elmi e Maurizio Lolli, ma anche i due chitarristi Maurizio Solieri e Massimo Riva. Con un po’ di impegno è possibile intervistarlo, anche per tre ore di seguito, come accadde al sottoscritto (è tutto custodito su due C90, le audiocassette di un tempo). Una lunga chiacchierata che, forse, potrebbe essere lo spicchio di un prossimo programma di Raidue (vedremo…). Vasco, in un angolo a pochi metri dalla reception dell’albergo Oreinte di Bari, confessò di tutto e di più. Senza freni. Canzoni, lavoro, desideri, giornalisti e attori che lo avevano offeso pesantemente. Le sue risposte, mai banali, anche se erano le quattro del mattino, non suonarono mai come offesa.
Corre voce che Amadeus stia premendo per averlo a sorpresa, avanza Sanna in una ipotesi. Non illude, puntualizza, “anche stavolta sarà buco nell’acqua”. Vasco Rossi ha rimesso piede all’Ariston nel 2005 come super ospite e questo pare abbia chiuso definitivamente il cerchio.
GENNAIO ’82, BUONA LA PRIMA
Data spartiacque per il buongusto italico e la concezione di canzonetta popolare. Vasco si presentò a Sanremo col suo reggae “Vado al massimo” e per tutti sembrò che lui andasse malissimo. Aria di chi è lì per caso e totalmente disinteressato di come stare in scena e di fronte alle telecamere finale col microfono che avrebbe dovuto riconsegnare, messo in tasca e poi da lì caduto mentre lui si allontanava, con boato audio in diretta.
Quando lo vide con la Steve Rogers Band a Domenica In, ricorda il giornalista ripreso da Tiscali, Nantas Salvalaggio scrisse su Oggi: «Vasco Rossi… Un bell’ebete, anzi un ebete piuttosto bruttino, malfermo sulle gambe, con gli occhiali fumé dello zombie, dell’alcolizzato, del drogato “fatto”… Un vero artista, anche quando interpreta uno “zombie”, un barbone da suburra, un rottame umano, ci mette quel lievito che ti ripaga dalla bruttura del fango, dell’orrido che contiene il personaggio. Invece, quello sciagurato di Vasco era orrido-nature, orrido-allo-stato-brado”…».
Pesante Salvalaggio. Ma anche la risposta che dette al sottoscritto, perché la riportassi sul Corriere del giorno, il quotidiano con cui lavoravo all’epoca, e sulle frequenze di Studio 100 Radio, emittente importante del Sud e da me diretta, non fu una semplice passeggiata di salute.
Infatti, ricorda il collega nel suo puntuale intervento, “quando il signor Rossi tornò a Sanremo due anni dopo mostrò di non essersi scordato il signor Salvalaggio: “Meglio rischiare che finire come quel tale che scrive sul giornale”. E Salvalaggio: “Uno splendido esempio di drogato, è diseducativo fare apparire un tossico in televisione”.
VASCO II, IL RITORNO
Determinanti, comunque, i due anni a Sanremo. Vasco ha fatto un lungo post su Facebook nell’occasione dei quarant’anni di “Vado al massimo”. «Ci andai – scrive Vasco – perché Gianni Ravera, il patron del Festival mi offriva la platea nazionale della televisione garantendomi soprattutto la libertà di fare quello che volevo. Geniale Ravera, aveva capito che la musica nell’aria stava cambiando e che io rappresentavo il nuovo. Per questo accettai l’invito e ci andai. Ci andai da solo, perché nessuno dei miei fidati collaboratori di allora, leggi Guido Elmi in primis, volle accompagnarmi, non ci credevano. Io, invece, sapevo bene quello che facevo. Avevo già scritto canzoni come “Albachiara”, “La noia” (la prima provata a casa di Curreri, la seconda la sua preferita, parole di Vasco, registrate, ndc), “Jenny”, “La nostra relazione”, “Colpa d’Alfredo”, “Siamo solo noi”. “La platea nazionale mi serviva, certo. Ma quello che volevo io soprattutto, era sbalordirli, provocarli, scuotere in loro un’emozione, dissacrare quel palco con ironia e provocazione.
Poi fu Vita spericolata e un decollo inarrestabile. Ero certo che avrei colpito e, nel bene o nel male affondato, chi dalla platea del teatro a quella della tv, mi guardava (anche se pochi allora dichiaravano di guardare il festival, in realtà tutti mi avevano visto..). Più che una sfida, quei tre minuti di esibizione, lo spazio di una canzone, rappresentavano per me un’occasione unica per farmi notare da più gente possibile. Della gara, a me, non m’importava nulla e tantomeno di vestirmi “elegante”, io avevo il mio look da concerto, jeans e giacca in pelle. Ricordo che dietro le quinte mi guardavano tutti come se io fossi un alieno».
Grande, unico Vasco. E un “grazie” a Sanremo, che difficilmente seguirò (sei giorni equivalgono ai domiciliari…), per averci regalato quelle due schegge matte di un grande rocker.