«Nutella, che tentazione…»

Francesco Basile, tarantino, Executive creative director di Ogilvy Italia

Lavora per una delle agenzie pubblicitarie più importanti d’Europa, studia e promuove brand italiani che fanno il giro del mondo. «Mi piacerebbe che dopo un anno di lavoro, la mia agenzia fosse soddisfatta del mio lavoro». E di quello della sua collega Lavinia Francia, che gli propone di condividere una prima campagna per Emergency. «Missione compiuta…»

Giuseppe-MastromatteoCome sfondare nel campo della pubblicità, conoscendo perfettamente tutti gli step che portano a una comunicazione della quale si diventa padroni non a caso. Francesco Basile, tarantino, giovane ma con alle spalle già una solida esperienza, più che scoprirsi è stato scoperto dalla Ogilvy Italia. Lui ha mostrato di conoscere la materia, tanto da aver preso parte, oggi in modo ancora più significativo, alle campagne di brand famosi in tutto il mondo, fra questi Nutella e Campari. Due dei tanti marchi curati dall’agenzia Ogilvy che forniscono un autorevole passaporto al “made in Italy”.

Oggi, Francesco, compie un passaggio deciso in avanti. Da poco è Direttore creativo-esecutivo di Ogilvy Italia presieduta da Giuseppe Mastromatteo, presidente e chief Creative Officer. Insieme con Francesco, a rivestire sempre il ruolo di Direttore creativo-esecutivo, una brillante Lavinia Francia. E’ lei che fa scoccare la scintilla collaborativa con il primo lavoro condiviso per conto di Ogilvy: Emergency. Detto, fatto, e, soprattutto, missione compiuta.

«Abbiamo iniziato un anno e mezzo fa – dice Francesco, interpretando anche il pensiero della collega – mettendo insieme stili e background per raggiungere i nostri obiettivi comuni così da dare soddisfazione a Ogilvy». La scelta è stata sicura: non necessariamente assumere una figura esterna, bensì premiare l’impegno di chi conosce l’azienda e ha voglia di crescere con essa. Il rapporto con “Mastro”, come viene affettuosamente chiamato il presidente, non cambia. Si fa più stretto, forse.

roberta-la-selva-600x400CON I VERTICI, TUTTO OK

«Rapporto con Mastromatteo – prosegue Basile – non cambia tanto, considerando che avevamo un rapporto costante; il nostro, “Mastro” compreso, in realtà era già un terzetto per capire i progetti che stavamo affrontando: siamo una estensione in termini di testa e braccia: ogni progetto, oggi, ha sei occhi; affrontare tempestivamente domande ed eventuali problemi è più semplice».

A domanda precisa. Su quale possa essere il primo bilancio di un anno di lavoro. «Ci piacerebbe sapere – la risposta di Francesco – che il mio impegno e quello di Lavinia abbia funzionato e che la nostra agenzia sia ampiamente soddisfatta del nostro lavoro». Già copywriter e art director in Ogilvy Italia, Lavinia Francia e Francesco Basile, si diceva, sono stati nominati a inizio settembre direttori creativi esecutivi dell’agenzia.

«Bello vedere crescere talenti all’interno dell’agenzia e con essi l’energia che anima Ogilvy tutti i giorni», dice Giuseppe Mastromatteo, presidente e chief creative officer di Ogilvy Italia. «Francesco e Lavinia incarnano la visione multidisciplinare che stiamo portando avanti e hanno già dimostrato quanto questa visione possa portarci lontano», aggiunge Roberta La Selva, chief executive officer di Ogilvy.

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«Francesco Basile e Lavinia Francia sono due professionisti dal background diverso e complementare, animati dalla stessa passione e voglia di superarsi, che contribuiranno ad arricchire la visione creativa dell’agenzia e che nel nuovo ruolo sapranno portare nuova ispirazione ai team e ai clienti», ha aggiunto Mastromatteo.

I due nuovi direttori creativi esecutivi oggi affiancano proprio il presidente dell’agenzia nella guida del reparto creativo. Si interfacceranno, tra gli altri, con Armando Viale, creative director di Ogilvy Italia. Riconoscenti per l’attestato di fiducia e di stima, Francesco e Lavinia si sono detti entusiasti. «In particolare per di avere la possibilità di confrontarsi con tanti clienti di respiro nazionale e internazionale, di guidare un team ricco di capacità e di ambizione, di collaborare con tantissimi professionisti provenienti da diversi ambiti della comunicazione, di contaminare con la creatività ogni suo aspetto e ogni opportunità di business».

«Rispetto per la donna!»

VALENTINA/“Differenza Donna” interviene a difesa del “sesso debole”

«In tv non si possono far passare concetti in cui l’uomo deve sopraffare con gesti e fisicamente la propria compagna». Nell’occhio del ciclone un programma televisivo, ma bisognerebbe preoccuparsi anche di altre fasce d’ascolto in cui viene messo alla gogna chi non ha strumenti di difesa. Caso segnalato all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom)

DSC_2074-1-002Televisione, maneggiare con cura. Fare tv, non è per tutti. Maria De Filippi, finita con il suo programma “C’è posta per te” in una gogna mediatica forse un po’ esagerata, è una che la tv non solo sa farla, ma conosce anche le dinamiche che portano a dibattiti che cominciano sui social e puntualmente finiscono sui giornali, da quelli online ai cartacei. Cosa ne scaturisce, e Nostra Signora degli Ascolti lo sa perfettamente: che la trasmissione beneficia di una pubblicità gratuita. Che sia un bene o un male, questo sarà assodato più avanti, anche se una conduttrice come la De Filippi, così amata e così scaltra, ne uscirà come sempre vincitrice. E’ la tv, bellezza, avrebbe detto il Bogart del film “L’ultima minaccia”, e tu non puoi farci niente.

Dunque, consideriamo in questo angolo di “Storie”, quanto segnala l’ottimo “Open”, giornale online fondato da Enrico Mentana: le tv dovrebbero avere più rispetto dei più deboli. Pertanto non è un processo al programma più seguito di Canale 5. Ce ne guarderemmo bene, del resto non siamo l’Aldo Grasso di “TeleVisioni” (Corriere della sera). E’ solo il punto di partenza per porre l’indice sulla tv in generale, come cioè certe cose andrebbero gestite. Detto che gli attriti nei programmi televisivi sono spesso voluti, istigati da autori e conduttori, diciamo che l’episodio accaduto nella prima trasmissione dell’anno di “C’è posta per te”, è il pretesto per parlare di comunicazione. Per fare sensazione, potremmo titolare “Comunicazione, questa sconosciuta”. E, invece, la conosciamo talmente bene, che molti approfittano dei malintesi per fare ascolti e aprire dibattiti. Accade di solito alle trasmissioni che nessuno si fila: buttarla in caciara è l’ultimo tentativo per far conoscere la propria esistenza, prima della chiusura per ascolti bulgari.

maria_de_filippi_amici_2021_ufs.jpgTV SUL BANCO DEGLI IMPUTATI

Dunque, parliamo della tv sul banco degli imputati. La trasmissione finita nell’occhio del ciclone inscenerebbe «misoginia senza un intervento da parte della conduttrice». La segnalazione è da parte di “Differenza Donna”, organizzazione non governativa, che segnala la puntata del programma della De Filippi (7 gennaio), protagonista una coppia romana e un «matrimonio interrotto», il loro, all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom).

Per l’Organizzazione “Differenza Donna” che da luglio 2020 gestisce il 1522 (numero nazionale antiviolenza e antistalking attivato dal Dipartimento per le Pari Opportunità), la trasmissione avrebbe «divulgato una relazione sentimentale connotata da sopraffazione, denigrazione e mortificazione dell’uomo sulla donna, rappresentando una dinamica misogina delle relazioni in assenza di qualsivoglia intervento correttivo da parte della conduttrice».

Valentina, questo il nome della protagonista del racconto, aveva chiesto l’intervento della trasmissione per riconquistare il marito, Stefano, dopo averlo tradito, convinta, pare, di essersi innamorata di un altro uomo.

E’ il racconto che precede la decisione di lasciarsi ad aver provocato nel pubblico, e poi in rete, reazioni critiche sulla relazione «tossica» – così viene definita dalla Ong – tra i due. Una relazione e un modus operandi comunicativo sul quale anche, udite udite, anche Chiara Ferragni e Fedez avevano potato un commento. «Per noi è la tossicità fatta a persona», avevano dichiarato in un video. Valentina in trasmissione aveva raccontato di aver fatto qualsiasi passo per dimostrare «di essere perfetta come moglie, mamma e come donna di casa: lavavo pulivo stiravo badavo ai figli, li crescevo e facevo trovare tutte le sere un pasto caldo a mio marito».

c38ce6b0-9404-472c-9958-ba4f2c8edd7b«VESSATA DA QUATTRO ANNI»

Da quattro anni a questa parte, però, secondo Valentina, suo marito Stefano avrebbe iniziato a trattarla male, dandole dell’«incapace, della stupida, nonché della persona inutile». Tutto ciò anche davanti ad estranei. Il marito sarebbe arrivato addirittura a dire alla donna: «Impara a fare subito quello che ti dico». Nel programma si raccontano altri episodi in cui il marito sminuisce Valentina davanti ai figli. A causa di un parcheggio sbagliato, addirittura, le avrebbe tirato addosso il seggiolone della bambina. Nonostante questi episodi, però, Valentina si sarebbe rivolta alla trasmissione televisiva per ricucire il rapporto con il marito e convincerlo a tornare a casa.

Una vicenda, quella di Valentina e del marito, come segnala “Differenza Donna”, se aderente alla realtà sarebbe stato un fatto di per sé grave. Perché, in particolare, la tv avrebbe «riprodotto e legittimato in un vasto pubblico, quale è quello di un programma di prima serata del sabato, trattamenti inaccettabili che configurano se abitualmente riprodotti nelle relazioni, reati molto gravi che offendono beni giuridici di rango costituzionale». Questa la denuncia, alla quale ci associamo. “Differenza Donna” fa bene a trattare episodi che danneggiano il sesso cosiddetto debole, ma noi ci permetteremmo di allargare il campo anche alle trasmissioni serali che usano le fasce deboli strumentalmente, per scopi populistici e politici. Insomma, le altre Ong, le altre categorie, si facciano sentire. E se sono già presenti, alzino il tono – come fanno spesso in studio e nei collegamenti esterni gli ospiti… – per chiedere il sacrosanto rispetto di chi non ha gli strumenti per farlo.

«Mi dia del “lei”, presidente…»

Aboubakar Soumahoro, primo giorno in Parlamento del sindacalista appena eletto deputato

Il caso rientra, Giorgia Meloni si scusa. Ma l’ex sindacalista mostra conoscenza della Costituzione e ribatte: «Evidentemente le viene spontaneo rivolgersi con il “tu”, ma avremo modo di confrontarci sui braccianti, e non solo su quanti svolgono questo lavoro sottopagato e hanno il mio stesso colore di pelle». Due anni fa il neodeputato di origini ivoriane aveva dato vita alla “Lega Braccianti” diventando portavoce della comunità “Invisibili in movimento”.

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«Visto che mi ha dato del tu, contravvenendo alle regole istituzionali spero che questo possa essere prodromica ad un confronto personale sui temi che ci stanno reciprocamente a cuore».

Il neo onorevole Aboubakar Soumahoro, originario della Costa d’Avorio, non le manda a dire al nuovo presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che corregge in occasione della fiducia incassata alla Camera dei deputati (235 voti favorevoli e 154 contrari). La puntualizzazione durante la replica che ha preceduto le dichiarazioni di voto. Giorgia Meloni si rivolge a Soumahoro, per rispondere all’intervento che il nuovo parlamentare ha fatto durante il dibattito.

La neopresidente, al debutto inciampa daccapo. Storpia il cognome di Soumahoro, poi si rivolge al deputato di Alleanza Verdi e Sinistra dandogli del “tu”. «Al collega Soumahoro – dice Giorgia Meloni – voglio dire che tutti ci sentiamo allievi della storia, sai? Altrimenti saremmo ignoranti del presente». Queste le parole pronunciate dal presidente del Consiglio. Dopo la puntualizzazione di Soumahoro, le scuse, non prima di un altro inciampo. «Non ho dato del “tu” a nessuno. Ah, era il “sai”… Sì, avete ragione, errore mio, calmi… Succede nella vita di sbagliare, l’importante è riconoscerlo e chiedere scusa».

«RICORDA GRAMSCI?»

Ma Aboubakar, giacché c’è, ribatte dando una piccola lezione in fatto di conoscenza, mostrando di aver studiato la storia più di altri presenti nell’emiciclo del Parlamento. Così il neoeletto in Alleanza Verdi e Sinistra, riprende: «Visto che anche la Presidente Meloni è “scolara della Storia”, come diceva Gramsci, si ricorderà – fa attenzione a porre l’accento sul “lei” – che durante lo schiavismo e la colonizzazione i “neri” non avevano diritto al “lei”, riservato a quanti venivano considerati “civiltà superiore”».

Non finisce qui, Aboubakar, rincara. «Evidentemente quando un underdog incontra un under-underdog viene naturale dare del tu». Il riferimento è al passaggio del discorso programmatico in cui la presidente del Consiglio si è definita una underdog, espressione inglese con la quale si definisce un atleta, oppure una squadra, dato per sfavorito secondo i pronostici.

Ecco l’aggancio all’incipit iniziale, riportato da Annalisa Cangemi nella sua puntuale cronaca svolta per fanpage.it (che vi invitiamo a visitare), che riprende il chiarimento “parlamentare” dei giorni scorsi: «Presidente, visto che mi ha dato del “tu” – ha detto Aboubakar – contravvenendo alle regole istituzionali, mi auguro che questo possa essere prodromica ad un confronto personale sui temi che ci stanno reciprocamente a cuore». “Prodromica”, bella stilettata. Alzi la mano chi, senza tanto pensarci sopra, sappia cosa significhi questo aggettivo. In realtà è il primo segnale di un’insofferenza. «A buon intenditore…», avrà pensato, l’ex dirigente dell’Unione sindacale di base. Il riferimento è ad uno dei temi che stanno a cuore a proposito dei diritti dei braccianti. E non solo di quelli dal colore della pelle diverso dal bianco, tanto per intendersi.

crates-2815435_960_720«ERRORE MIO, CALMA…»

«Ah, era il “sai” – si era corretta, però, Giorgia Meloni – avete ragione, errore mio, calma: succede nella vita di sbagliare, l’importante è riconoscere un errore e chiedere scusa». Vero. Scuse accettate, anche se Aboubakar non nasconde un certo disappunto, del resto: «Presidente, del resto io le ho dato del “lei”, forse avrebbe dovuto fare anche lei così con me: ma non pensiamoci più, avremo modo di confrontarci su temi sui quali spero ci troveremo d’accordo». Il riferimento è, tanto per cominciare sullo sfruttamento dei braccianti agricoli. «Giurare fedeltà alla nostra Costituzione – aveva sottolineato Aboubakar – significa avere anche rispetto sui valori dell’uguaglianza e della giustizia sociale: non sta a me ricordarvelo, ma sappiate che ogni articolo della Costituzione ha dietro centinaia di giovani morti per la Resistenza».

«Voglio dare rappresentanza politica agli invisibilizzati – aveva detto in campagna elettorale Aboubakar – la Carta costituzionale deve materializzarsi nel miglioramento degli esseri viventi in termini di dignità e felicità intesa come felicità collettiva». Dopo una ventennale militanza nell’Usb, Aboubakar Soumahoro due anni fa aveva dato vita alla “Lega Braccianti” diventando portavoce della comunità “Invisibili in movimento”. Alle recenti Politiche è stato eletto nella lista composta dall’alleanza tra Europa Verde e Sinistra Italiana.

«Ebraismo e socialismo…»

Furio Biagini spiega il suo libro “Torà e libertà”

«Entrambi mirano alla creazione di un mondo futuro nel quale lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo deve essere definitivamente abolito», spiega il docente. «Le due cose però hanno in comune la critica al potere costituito, al pensiero unico e, dunque, entrambi si battono contro i limiti e le imposizioni del pensiero unico», sostiene lo scrittore. «L’ebraismo rifiuta sudditanza, gerarchia, repressione e oppressione», afferma Annalisa Adamo, moderatrice e promotrice dell’incontro

20221020_184405Giovedì sera nella libreria Ubik in via Nitti a Taranto, si è svolto uno degli incontri all’interno del programma “#Ante Litteram” di quest’anno, dedicato ad esponenti di rilievo della cultura e della società. E’ toccato ad Annalisa Adamo, presidente di #Ante Litteram (già assessore agli Affari generali, Ambiente e Legalità del Comune di Taranto), tornare a dialogare con Furio Biagini, scrittore e docente di Storia Contemporanea e dell’Ebraismo nell’Università del Salento. Insieme hanno presentato il libro “Torà e libertà”, studio sulle affinità elettive tra ebraismo e socialismo libertario.

«Ho trovato all’interno dell’ebraismo – ci ha detto l’autore – delle affinità fra pensiero socialista e libertario; attenzione, non il marxismo, almeno non nelle sue versioni più libertarie, e il pensiero ebraico, dal punto di vista ideologico; per fare un esempio, si parte dal sabato piuttosto che dal giubileo, che vanno incontro a una visione del sociale come quella del socialismo: entrambi mirano alla creazione di un mondo futuro nel quale lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo deve essere definitivamente abolito».

Facessimo un distinguo fra ebraismo e socialismo. «Il socialismo è una ideologia che nasce sulla fine del Settecento – riprende Biagini – ha le sue radici nell’illuminismo, nel pensiero illuminista e contemporaneo; l’ebraismo è una fede religiosa che risale a secoli fa, al monoteismo. Le due cose però hanno in comune la critica al potere costituito, al pensiero unico e, dunque, entrambi si battono contro i limiti e le imposizioni del pensiero unico. La Torre di Babele ne è un esempio: se avessero parlato tutti la stessa lingua sarebbe stato un mondo che mirava a trasformarsi nel Divino, a sostituirsi ad esso, che invece interviene sparpagliando tutti in ogni angolo del mondo, in buona sostanza: è la diversità che rende ricchi».

20221020_185003EBRAISMO E ANARCHISMO…

«Ebraismo e anarchismo, dunque – dice Annalisa Adamo – due concezioni apparentemente opposte: la prima una tradizione religiosa fondata sull’obbedienza della legge, la seconda una filosofia politica basata sulla libertà da ogni dominio; tuttavia, espliciti legami sotterranei esistono tra queste due espressioni politiche, religiose e culturali».

Il libro, attraverso una lettura personale dell’autore sui testi biblici, esplora relazioni profonde. Dalla Torà fino ai fervori chassidici, l’ebraismo afferma con forza il rifiuto di ogni relazione umana basata sulla sudditanza, sulla gerarchia, nonché sulla repressione e l’oppressione. «Dalle polemiche contro il potere politico dei profeti – prosegue la moderatrice dell’incontro – all’esplosione dell’energia creativa del chassidismo, il pensiero ebraico è ricco di spunti anarchici che si ritrovano nelle moderne utopie rivoluzionarie, soprattutto nelle tendenze libertarie e antiautoritarie, con la loro idea della assoluta libertà umana e del rifiuto di qualsiasi potere centrale autoritario. Si potrebbe compendiare il contenuto di questo libro con una frase di Thomas Jefferson: La ribellione ai tiranni è obbedienza a Dio».

«Prima della Shoah – spiega in un suo intervento Biagini, spesso sollecitato dalle domande dalla platea – il sionismo era una minoranza all’interno del mondo ebraico tanto che, per esempio, solo il 25% degli ebrei polacchi sosteneva il movimento nel periodo compreso tra le due guerre mondiali. Per la maggioranza degli ebrei era un movimento utopico politicamente pericoloso. Socialisti e bundisti si opponevano ai suoi obiettivi in nome dell’internazionalismo proletario e lo consideravano un movimento reazionario che divideva la classe operaia e minava la lotta per i diritti di tutti gli oppressi, tra i quali includevano anche gli ebrei della diaspora».

20221020_184223STATO EBRAICO, LA DIASPORA

Gli ebrei pienamente assimilati definivano la loro ebraicità esclusivamente in termini religiosi e non etnici. «Temevano che la nascita di uno Stato ebraico – sostiene il docente – mettesse in discussione i diritti recentemente conquistati. Allo stesso tempo gli ebrei ortodossi credevano che la rinascita di uno Stato ebraico nella terra dei padri dovesse attendere la venuta del Messia. Dopo la Shoah e la creazione del moderno Stato d’Israele, l’opposizione ebraica al sionismo gradualmente andò scomparendo. Una parte consistente degli ebrei religiosi vide nelle realizzazioni pratiche del sionismo il compimento delle promesse divine mentre i socialisti, critici verso i principi ideologici del movimento, in pratica, iniziarono a sostenere, di fatto, lo Stato d’Israele. Col tempo solo pochi gruppi ebraici restavano fortemente antisionisti, in particolare, alcuni settori della estrema sinistra, associazioni marginali come l’American Council for Judaism, fondato nel 1942 da alcuni rabbini reform, ma soprattutto gli haredim, letteralmente coloro che tremano, in riferimento al versetto di Isaia 66, 5: “Ascoltate la parola dell’Eterno, voi che tremate alla sua parola”, o ultra-ortodossi secondo la definizione preferita dai media, e la piccola formazione, ma ben visibile e rumorosa, dei Neturei Karta, in aramaico i Guardiani della città».

L’incontro nella libreria Ubik di Taranto è stato organizzato da “#Ante Litteram” in collaborazione con l’Associazione Italia-Israele sezione “Alexander Wiesel” (Bari), il Comitato per la Qualità della Vita, la Fondazione Rocco Spani onlus, il Crac Puglia Centro di ricerca arte contemporanea.

Forza Mia, Colin e Laurent!

Diventeranno ciechi, ma i genitori li portano in giro per il mondo

«Non mostrerò loro un elefante in un libro, ma li condurrò a vedere un vero elefante, per colmare la memoria visiva con le immagini più belle che posso trasferire loro», dice mamma Edith. Rilascia una dichiarazione alla CNN, insieme con il marito Sebastien con il quale ha dato fondo ai risparmi. «Porteremo i piccoli in giro per il mondo sperando che nel frattempo la scienza trovi una soluzione». Anche noi incrociamo le dita con loro

Foto Zazoom

Foto Zazoom

«Ho pensato: “Non le mostrerò un elefante in un libro – ha raccontato la donna alla Cnn –, la porterò a vedere un vero elefante, e colmerò la sua memoria visiva con le immagini migliori e più belle che posso”». E’ uno degli attacchi di un articolo pubblicato dal Corriere della sera e scritto da Alessandro Vinci, un collega che mostra, come pochi, come si fa il mestiere di giornalista. Meglio, di cronista, di un giornalista che prende nota, scrive senza esasperare il lettore per portarlo al pianto: lo fa in punta di penna, certamente non come farebbe certa televisione. Sarebbe sciocco, però, dire che siamo rimasti insensibili alla storia di Mia, Colin e Laurent, tre ragazzi affetti da retinite pigmentosa, l’anticamera del buio totale, la cecità. La mamma, Edith, che nel frattempo, ha assorbito la tripla mazzata, si è lasciata andare in una intervista rilasciata alla CNN, una delle tv americane più importanti e più seguite nel mondo. Le fa bene parlarne, ma ogni volta che racconta la sua storia fa bene alla gente, l’umanità che la circonda. Quella che si accapiglia per una sciocchezza, per una fila al supermercato, per non avere avuto la precedenza alla guida di un’auto. Ecco, Edith ci ha fatto un dono: ci ha aperto gli occhi sul mondo. Un mondo fatto di piccole cose quotidiane, come aprire gli occhi e vedere la luce del giorno, il sorriso di un bambino.

E, allora, Vinci racconta di un lungo viaggio intorno al mondo, che mamma Edith e papà Sebastien stanno compiendo per fare assorbire ai loro tre figli sfortunati quanta più bellezza possibile. “Dolci ricordi di famiglia – riporta il Corriere della sera – da accumulare prima che il buio prenda il sopravvento”. Quando ai coniugi canadesi Edith Lemay e Sebastien Pelletier è stato consigliato di riempire di «ricordi visivi», prosegue il racconto struggente, la loro secondogenita Mia, oggi undici anni, hanno ritenuto che ci fosse un solo modo valido per farlo: partire tutti insieme per un’avventura indimenticabile.

«MOSTRERO’ UN ELEFANTE VERO»

Riprendiamo la frase di apertura. «Ho pensato: “Non le mostrerò un elefante in un libro – spiega Edith alla Cnn – ma la porterò a vedere un vero elefante. E colmerò la sua memoria visiva con le immagini migliori e più belle che posso”».

Alla piccola, che ha iniziato a soffrire di problemi agli occhi già all’età di tre anni, era stata infatti appena diagnosticata una retinite pigmentosa, rara condizione genetica che determina la perdita progressiva della vista fino ad arrivare, nei casi più gravi, alla cecità totale. E la stessa sorte è poi toccata tre anni fa a due degli altri tre figli della coppia: Colin (7 anni) e Laurent (5 anni), che avevano iniziato a manifestare gli stessi sintomi. Unico a “salvarsi” il secondogenito Leo (9 anni), risparmiato dalla malattia per una mera questione di fortuna. «Non c’è niente che si possa davvero fare», riprende il Corriere riportando l’intervista franca, ma dolorosa della donna, che ha spiegato come purtroppo non esistano ancora una cura né un trattamento efficace per far fronte alla patologia.

«COME PROGREDIRA’?»

«Non sappiamo quanto velocemente progredirà – ha aggiunto – ma ci aspettiamo che Mia, Colin e Laurent diventino completamente ciechi entro la mezza età». Che coraggio, pronunciare una simile frase che a chiunque, e non solo per chi sia genitore, pesa come un macigno. Insomma, dal responso dello specialista in poi, la decisione di Edith e Sebastien nel dare fondo ai propri risparmi e, senza perdere tempo, di partire per un anno insieme ai quattro figli.

Ma, prima di tutto, la lista di desideri. Mia ha espresso il desiderio di andare a cavallo, mentre il piccolo Laurent voleva tanto bere un succo sul dorso di un cammello. Originariamente previsto per il 2020, il viaggio ha così potuto avere inizio dall’aeroporto di Montreal lo scorso marzo, una volta allentatasi l’emergenza Covid. Prima tappa: la Namibia. Poi è stata la volta di Zambia, Tanzania e Turchia. Attualmente i sei si trovano invece in Mongolia, dopodiché sarà la volta dell’Indonesia.

Foto Wikipedia

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ZAMBIA, TANZANIA, TURCHIA…

«Ci stiamo concentrando sui paesaggi – ha spiegato sempre alla Cnn papà Sebastien, parole tradotte e riportate da Alessandro Vinci sul Corriere – ma anche sulla fauna e sulla flora. Abbiamo visto animali incredibili in Africa, ma anche in Turchia e altrove. Stiamo cercando di far vedere ai nostri figli cose che non avrebbero mai visto a casa e di far vivere loro esperienze incredibili».

A dimostrare pubblicamente questo giro del mondo, gli scatti condivisi dalla famiglia sugli account Instagram e Facebook «Le monde plein leurs yeux» («Il mondo riempie i loro occhi»). E non mancano neppure preziose lezioni di vita: «Non importa quanto sarà dura la loro esistenza – ha affermato Edith – ma volevo mostrare loro che sono fortunati anche solo ad avere l’acqua in casa e a essere in grado di andare a scuola ogni giorno con bei libri colorati».

Ancora da definire gli ultimi Paesi da visitare prima del rientro a Montreal. Quel che è certo è che ogni momento verrà assaporato con la massima intensità. Il finale della storia, perché un genitore non si piega mai, nemmeno davanti alla scienza, è una frase di speranza alla quale ci uniamo anche noi. Deve essere così. «Speriamo che la scienza trovi una soluzione – ha dichiarato papà Sebastien – non ci resta che incrociare le dita perché questo possa accadere». Così anche noi incrociamo le dita: forza Mia, Colin e Laurent!

«Duecento euro al mese!»

Yuri, ventitré anni, chef a pochi soldi

«Fino a giugno scorso ho faticato anche ottanta ore a settimana, oggi finalmente ho un altro contratto. Al mio ex datore di lavoro non è andata giù che mi “licenziassi”: mi ha dato del “traditore”, come se lo avessi ferito. Sogno un ristorante tutto mio, ma adesso sotto con antipasti, primi e secondi piatti»

bonus 200 euro foto ansa2-2Ha ventitré anni, ora un contratto decoroso, ma prima di arrivare a tirare un sospiro di sollievo, ha dovuto soffrire. E tanto, perfino a duecento euro al mese, cifra alla quale non vogliamo nemmeno pensare, considerando che alcuni nostri ventenni vantano sui social serate sfrenate a duecento, trecento euro. Fra le sofferenze, oltre ad incassare una mensilità che non sta in cielo, né in terra, ha dovuto sentirsi dare del «traditore». Pensateci bene, il titolare o chi per lui, che lo ha liquidato con l’ultimo “stipendio”, mentre gli consegna quel pugno di euro a fare pure il risentito. Ci vuole coraggio. Certo, mai quanto quello di Yuri.

Ventitré anni, scrive Fanpage.it in una notizia scovata da Gabriella Mazzeo, Yuri sarebbe «uno dei giovani che non vogliono lavorare» secondo imprenditori accorsati che non perdono occasione di dare addosso ai ragazzi, dicendo loro che non sanno sacrificarsi.

Al netto dei suoi annetti, chef in un ristorante di lusso, in Veneto, Yuri pare che qualche sacrificio lo abbia fatto. Sui social ha raccontato la sua pessima esperienza nelle cucine di un locale rinomato nel quale si pagano “coperti” e conti salati .

«MI SONO FATTO FORZA…»

«Per i primi quattro mesi – ha spiegato Yuri su un social – ho deciso di accettare un contratto ridicolo: 16 ore part-time, nonostante il mio monte ore settimanale si aggirasse intorno alle 80». Imbarazzante.

«Ho stretto i denti, mi sono fatto prendere dalla novità: il posto mi piaceva e, alla fine, ho acconsentito anche alle condizioni del titolare». Condizioni che, evidentemente, non sono migliorate in seguito. Da gennaio a giugno di quest’anno, a Yuri il titolare riconosce 100, 200 euro al mese. Da non crederci. E invece.

«Una situazione inaccettabile – scrive Fanpage.it – nel frattempo la stessa passione che mi ha accecato per sei mesi senza una busta paga, mi ha portato a cercare lavoro altrove. Provate a immaginare la faccia del titolare quando gli ho detto che me ne sarei andato via: mi ha risposto che “si sentiva tradito, preso per i fondelli e che i giovani sono inaffidabili”».

Progetto-di-una-cucina-per-ristorante_render-di-internoSI CHIUDE UNA PORTA…

Si chiude una porta, si apre – per fortuna – un portone. «Finalmente ho un contratto che viene rispettato – spiega Yuri – e uno stipendio decoroso, ma non posso dimenticare la brutta esperienza appena conclusa».

Secondo quanto raccontato dal giovane, il titolare del locale aveva promesso un’assunzione a tempo pieno dopo i primi mesi di prova. «Ha detto che avrebbe pagato interamente il mio lavoro: io ero lo chef, mi affidava l’intera cucina, ma avevo l’impressione che si approfittasse di me. A giugno, invece di stabilizzare la mia posizione, mi ha proposto un contratto “a chiamata”: a quel punto ho deciso che era finita».

Yuri, che adesso ha un lavoro decoroso e uno stipendio dignitoso, sogna di aprire un ristorante dove insegnare l’arte della cucina. Forza Yuri!

«Ricomincio da me…»

Andrew e Federica, si licenziano per dedicare più tempo a se stessi

Uno il più alto dirigente di un fondo d’investimento, l’altra una giornalista del Tg1. «Volo in Australia, a godermi la famiglia e le spiagge infinite del mio Paese», dice lui. «Una scelta laboriosa, ma ora non ho più alcun tipo di pressione, produco abiti: sono passata dalla “prima serata” e dalle rubriche dei motori al mercatino: felicissima». Storie da Messaggero e Fanpage

Foto Youtube

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Un Ceo, Chief executive officer, in pratica un dirigente con gli stessi poteri dell’Amministratore delegato, e una giornalista del TG1, si licenziano per vivere nella massima serenità il resto della vita.

E’ la scelta di Andrew Formica, cinquantuno anni, e Federica Balestrieri, quarantasette. Ceo il primo, giornalista la seconda. Scelta coraggiosa in un momento in cui non c’è più la certezza e la solidità nei posti di lavoro. Coraggiosa fino a un certo punto dirà qualcuno, considerando che i due soggetti in questione prima di prendere la decisione della loro vita, ci hanno pensato e ripensato, prima di mollare tutto e dedicarsi a se stessi, alla propria famiglia.

Le storie di Andrew e Federica, le hanno raccontate in questi giorni due organi d’informazione. Uno più tradizionale, il Messaggero (Andrew), l’altro meno formale, brillante, con un seguito importante quanto il quotidiano romano, Fanpage.it (Federica).

Andrew, cinquantuno anni, padre di quattro figli si dimetterà dal suo incarico di una società milionaria per volare in Australia. Motivo lampante: «Voglio stare in spiaggia senza fare nulla». Dunque, da massimo dirigente di uno dei più importanti fondi di investimento britannici, Jupiter and Management, a “disoccupato felice” su una spiaggia nella sua nativa Australia.

Foto Sky

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«MI GODO SPIAGGIA E MARE»

«Voglio solo sedermi in spiaggia e non fare niente; non sto pensando a nient’altro», ha spiegato alla stampa inglese. Si dimetterà a ottobre dopo meno di quattro anni di mandato da massimo dirigente di un fondo di investimento che gestisce qualcosa come sessantacinque miliardi di sterline in risparmi. Un ruolo, il suo, per ricoprire il quale ha guadagnato oltre cinque milioni di sterline.

Insomma, Andrew ha deciso che è il momento di cambiare vita, fare le valigie e godersi al massimo la vita familiare e le spiagge del suo paese d’origine, l’Australia. “A spingermi in questa decisione – ha spiegato il Ceo dimissionario – sono stati soprattutto motivi familiari e la volontà di stare accanto ai miei genitori anziani».

Al corrente sulla sua decisione, l’azienda. «Formica – ha commentato l’azienda – è sempre stato molto chiaro con il Consiglio di amministrazione sul fatto che i suoi piani a lungo termine avrebbero comportato il trasferimento nella sua nativa Australia con la sua famiglia: ha sentito che era il momento il momento giusto per cedere la guida dell’azienda e noi abbiamo preso atto della sua decisione».

Di altro tenore, anche se riconducibile alla voglia di godersi la vita non alla Terza età, ma ancora prima. Quando cioè è possibile dedicarsi del tempo al netto dello stress che un lavoro quotidiano e sotto pressione, come quello di giornalista del Tg1, può provocare. Federica aveva quarantasette anni – ha scritto Fanpage.it – quando ha deciso di licenziarsi dalla Rai dopo ventitré anni di servizio. Oggi ha cambiato completamente vita e nell’intervista rilasciata uno dei siti più cliccati in assoluto, confessa di non essersi pentita della sua scelta.

Foto Motorsport

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«DA UN SOGNO ALL’ALTRO»

«Ho avuto l’opportunità di fare il lavoro che sognavo, la giornalista sportiva – spiega Federica – dunque raccontavo la Formula 1, poi per sette anni ho condotto “Pole Position”, programma di punta della Rai sui motori; ho conosciuto tantissime persone e mondi differenti. Ero diventata popolare, mi chiamavano “la donna dei motori”, poi, ho scelto di andare al TG1, ho curato rubriche di moda, mi sono occupata degli speciali».

Cos’è cambiato. «A un certo punto – spiega – ho capito che avevo fatto tutto quello che avrei potuto fare in Rai. Ho pianto notti intere, un travaglio psicologico enorme. Sentivo che se fossi rimasta ancora, avrei perso tempo prezioso: c’era troppo mondo da vedere, troppe cose da fare, mi sentivo legata a un posto fisso, a impegni fissi, a un capo che mi diceva cosa dovevo fare, così ho detto basta e mi sono licenziata».

Era una scelta senza ritorno. «Essere libera, rilassata, non più schiava del lavoro, così mi sono detta: rinuncio a tanti soldi ma acquisto un’autonomia per me fondamentale per essere serena, altrimenti la sensazione è quella degli schiavi, magari di lusso perché guadagni tanto: ma che te ne fai dei soldi, se non hai tempo per spenderli e sei sempre stressato?».

Inizialmente Federica si è dedicata al volontariato, successivamente nel corso di un viaggio in India ha trovato la sua strada. «Avevo una vaga idea di produrre qualcosa – racconta – Ho comprato dei tessuti, li ho portati da un sarto e abbiamo fatto un pantalone, una gonna, una giacca e un vestito: quattro capi, moltiplicati per cinquanta pezzi in tutto. Tornata in Italia, ho invitato delle amiche e li ho venduti in un pomeriggio. Ho capito che piacevano e da lì ho dato il via alla mia attività, navigando a vista giorno per giorno, vendendo capi nei mercatini, poi è arrivato l’e-commerce. Mi capita di essere stanca, ma lo stress, la negatività, l’ansia che un lavoro si porta dietro, non ci sono più».

«Non chiamatemi eroe!»

Lorenzo, poche parole e una storia breve e “lunga” da raccontare

Ha salvato la vita a una piccola precipitata nel vuoto afferrandola al volo. Lui era lì, di passaggio quando si è accorto che la bimba si stava lanciando nel vuoto. Colpa (e merito) di un tablet che si schianta al suolo. Il ventottenne trevigiano viene attirato da quell’oggetto, alza gli occhi al cielo, stende le braccia e…

«Eroe io? Ma non scherziamo, ho solo fatto solo quello che dovevo!». No, caro Lorenzo, non pensare di cavartela così, con una battuta e quel sorriso di colpo diventato il più cliccato su Internet. Sei un eroe, un eroe dei nostri tempi per dirla con Monicelli che diresse uno strepitoso Sordi, che tutto era tranne un eroe. Pavido, sfuggente, così confusionario che si incartava nonostante avesse ragioni da vendere.

Non capita tutti i giorni di salvare la vita a una bimba che precipita nel vuoto, mentre gioca, dal secondo piano di casa sua afferrandola fra le braccia. Succede in una strada del comune di Treviso. Lui, di passaggio osserva quella piccola che non comprende che sta per compiere un gesto che può costarle la vita: la piccola scavalca il balcone. E lui, Lorenzo, terrorizzato, corre sotto al balcone, si pianta sotto il marciapiedi in direzione della piccola. Le urla: «No, ti prego, non farlo! Ti prego!». Si sa, i bimbi pensano che la vita sia tutta un gioco, non sentono, anzi quasi provano un sottile piacere a far finta di non sentire, pur di non obbedire a un grande. Così, la piccola si lascia cadere nel vuoto, pensa che volare dal secondo piano faccia parte del suo nuovo gioco. Per fortuna, sotto, c’è quel ragazzo che l’afferra saldamente. Da non crederci. Grazie, Lorenzo.

Eppure lui non si sente un eroe, scrive in un lungo articolo Il Resto del Carlino. Così: «Ti prego, ti prego no». Sono le uniche parole urlate a squarciagola con terrore, pronunciate da Lorenzo alla bambina appesa alla ringhiera del balcone. Poi è corso sotto al palazzo con le braccia tese, ha chiuso gli occhi ed è diventato un eroe. La piccola, che ha soli quattro anni, gli è caduta miracolosamente tra le braccia e lui, le ha salvato vita quasi per caso. Una vicenda che ha dell’incredibile, accaduta nel comune veneto, nella zona di Sant’Antonino, a pochi passi dalla ferrovia.

Foto Tribuna di Treviso

Foto Tribuna di Treviso

SALVATAGGIO ECCEZIONALE

Appassionato d’arte, Lorenzo, diventato protagonista di un salvataggio eccezionale, vive nel quartiere trevigiano di San Zeno con i genitori e lavora come addetto museale a Venezia. È stata una frazione di secondo a cambiare il corso degli eventi. La piccola era in bilico sul balcone di casa, in via Sant’Antonino, Lorenzo che passava di lì per andare a riprendere la sua bicicletta, che aveva bucato solo un’ora prima. L’aveva portata lì, a riparare, a due passi da casa della piccola.

Arrivano le tv, per fortuna rilascia un paio di battute. Chi, come noi, fa questo lavoro deve insistere, magari cogliere anche una sola sfumatura. E, allora, Lorenzo, una battuta per la stampa. «Mi chiamano eroe, ma io ho fatto solo quello che dovevo: davanti agli occhi ho ancora l’immagine di quella bambina minuscola appesa con una manina al terrazzo del secondo piano. Continuo a pensare a cosa sarebbe successo se avessi mancato la presa». Proprio vero, ma non vogliamo nemmeno lontanamente pensarci. A quello che sarebbe accaduto se il giovane avesse mancato la presa. Come lui stesso l’avrebbe presa, se la piccola non gli fosse caduta fra le braccia.

È stato il rumore del tablet caduto sull’asfalto ad attirare l’attenzione del giovane, scrive “Il Resto”. La piccola lo aveva tra le mani e le è sfuggito prima di cadere. È stato quello il momento fatale, la svolta che ha cambiato il destino della bambina e di Lorenzo, diventato un eroe all’improvviso e senza volerlo. Il ragazzo con un sorriso contagioso ha alzato gli occhi al cielo e ha visto la bimba aggrappata al terrazzo. Da quel momento in poi, lo scorrere veloce degli eventi, ormai entrati nella storia. Una storia indelebile che nessuno potrà mai cancellare dalla memoria di Lorenzo e, di sicuro, da quella della bambina.

Foto Il Gazzettino

Foto Il Gazzettino

«AVEVO FORATO LA BICI…»

«Verso le 5 del pomeriggio sono tornato al negozio di bici per ritirare la mia “due ruote”, quando ho sentito alle mie spalle cadere un oggetto. Mi giro di scatto, vedo un tablet per terra con lo schermo infranto: alzo gli occhi al cielo e vedo quella piccola, così minuscola, aggrappata con un braccio alla ringhiera del terrazzo».

Figlia di una coppia tunisina, la bambina stava giovando sul terrazzo di casa, sfuggita per un attimo al controllo della baby sitter, che in quel momento si trovava all’interno dell’appartamento. Aveva un tablet tra le mani, che all’improvviso le scivola via. Si infila tra la ringhiera e fa un volo di otto metri. La bambina cerca di afferrarlo, inutilmente. Allora si arrampica sul parapetto, si sbilancia e cerca di evitare la caduta aggrappandosi con le manine alla ringhiera.

Da sempre grande appassionato di arte e cinema, Lorenzo Tassoni è laureato in Scienze dello spettacolo e della produzione multimediale. Al momento lavora come guardasala nello storico Palazzo Venier-Manfrin di Venezia. Il giovane, origini trevigiane, vive a Treviso con la sua famiglia e spera di trovare un posto di lavoro stabile nel settore artistico. Magari il sindaco che lo incontrerà nelle prossime gli proporrà di partecipare a un concorso. Non sappiamo quanto faccia, in fatto di punteggio, “salvare una vita”. Di sicuro per pochi istanti sappiamo quanto ha fatto la paura in quegli istanti. «Novanta, macché, almeno centottanta!». Ringraziamo il cielo e quel giovane che la città non dimenticherà tanto facilmente. I genitori della piccola? Il papà appena arrivato dà un’occhiata alla sua figliola, non è nemmeno spaventata, pensa al tablet. Meglio così. L’uomo abbraccia Lorenzo, lo stritola quasi tanta è la sua riconoscenza. Poi arriva la mamma della piccola, in bici. Vede l’ambulanza, urla disperata, pensa che sia successo qualcosa di irrimediabile. Invece, quello scricciolo, che ha fatto tremare un intero isolato, è lì, gioca con una infermiera. Anche la donna stringe Lorenzo, non sa cosa dirgli. Ci pensa Lorenzo, ormai lo conosciamo. «Non ho fatto niente, solo il mio dovere: non sono un eroe…».

Giuseppe Cataldo, da Lizzano alla Nasa

Una grande storia, fatta di studio e sogni, coronata dal successo

Direttore della protezione planetaria, guida un team che progetterà tutti i sistemi di sicurezza. Gli studi ai Politecnici di Milano e Torino e in Francia, all’Institut Supérieur de l’Aéronautique et de l’Espace di Tolosa. Studente, ha vinto un concorso per l’Accademia americana. Fra i suoi impegni futuri: l’esame dei campioni prelevati da Marte

Ma che storia la storia di Giuseppe Cataldo, trentasei anni, non una ma più lauree raccolte in giro per l’Europa e poi negli Stati Uniti, dove è capitato non per caso, ma per intuizione. Cataldo non è un giovane qualunque, ma uno degli uomini di punta della Nasa. Uno di quegli ex ragazzi che ti scatenano l’orgoglio di appartenenza, uno di quegli esempi di come si possa sognare anche in una cittadina di diecimila abitanti come Lizzano, in provincia di Taranto, ed arrivare a capo di uno dei progetti miliardari della Nasa. Non una qualsiasi organizzazione di studi, ma la Nasa, National Aeronautics and Space Administrations, agenzia governativa civile responsabile del programma spaziale e della ricerca aerospaziale degli Stati Uniti. I sentimenti e le emozioni, il percorso di studi compiuto da Giuseppe Cataldo, sono stati ripresi in un interessante articolo pubblicato dalla Gazzetta del Mezzogiorno che bene ha fatto ad indicare una dei maggiori studiosi pugliesi più impegnati al mondo. Detto che gli americani non fanno regali e promuovono solo quelli capaci, mai i raccomandati (o segnalati, se preferiti), perché è qui che si fa la differenza, ecco che lo studioso partito da Lizzano si racconta al quotidiano pugliese che in queste settimane ha ripreso con successo le sue pubblicazioni, unendo la tradizione del cartaceo alla modernità dell’informazione “on line”.

Dunque, parte il racconto. “Dalle stelle che guardava da bambino durante i campi scout, nei boschi di Lizzano dove è nato, a quelle osservate dal «James Webb Space Telescope», la più potente «macchina del tempo» mai progettata per scoprire finalmente le origini dell’universo e studiare la composizione chimica dell’atmosfera dei pianeti fuori dal nostro sistema solare, che potrebbero forse ospitare qualche tipo di vita”.

Foto Il Piccolo

Foto Il Piccolo

QUESTA E’ LA STORIA…

E’ l’incipit della storia sulla quale il quotidiano si orienta immediatamente. E lo stesso Cataldo ad intervenire e raccontarsi. Un percorso non semplice, fatto di scelte, talvolta coraggiose, altre volte ambiziose. Viene segnalato lo sforzo congiunto tra le agenzie spaziali americana, europea e canadese che ha richiesto dieci miliardi di dollari di investimento.

Giuseppe, trentasei anni, parte da una cittadina di diecimila abitanti, si diceva, per arrivare alla Nasa, giovanissimo, ancora prima di laurearsi in Ingegneria aeronautica al Politecnico di Milano, realizzando il primo sogno che coltivava fina da bambino.

Aveva ventitré anni, era il 2009. Oggi è l’unico italiano ad avere ricevuto tre riconoscimenti importanti per la realizzazione del telescopio «Webb», rispettivamente per il contributo essenziale al progetto, per i risultati in fase di collaudo e per l’innovazione nei modelli matematici. Praticamente la conferma di trovarci al cospetto di un genio. Gli esami che non finiscono mai, si infittiscono di sfide, come quella, accettata, nella veste di direttore della protezione planetaria inversa. Giuseppe sarà alla guida del team che progetterà tutti i sistemi di sicurezza necessari a portare sulla Terra i campioni prelevati da Marte e a isolarli durante l’analisi, senza che un’eventuale presenza di microrganismi alieni contamini il pianeta.

Non prima del 2027 l’inizio della missione, quando i campioni da porre sotto analisi arriveranno almeno sette anni dopo. Giuseppe Cataldo arriva alla Nasa dopo aver compiuto gli studi ai Politecnici di Milano e Torino e in Francia, all’Institut Supérieur de l’Aéronautique et de l’Espace di Tolosa. Ancora studente, ha vinto un concorso bandito dall’Esa per la Nasa Academy e dopo aver conseguito le lauree, nel 2010, è tornato nell’Agenzia aerospaziale americana dove lo aspettavano un ufficio al Goddard Space Flight Center, una borsa di studio messa in palio dal Nobel John Mather, lo scienziato a capo di «Webb», e la possibilità di frequentare in simultanea il MIT di Cambridge.

Foto Repubblica

Foto Repubblica

GIUSEPPE, UNA FAVOLA

«Ho sempre desiderato studiare astrofisica – ha raccontato Cataldo – i miei genitori mi hanno sostenuto senza riserve, anche se questo significava trasferirmi a Milano. Dopo la maturità al liceo scientifico-tecnologico “Oreste Del Prete” di Sava, uno dei primissimi in Italia, mi iscrissi alla Statale. Proprio di fronte c’era la residenza Torrescalla di Fondazione Rui, che mi piacque subito: fortunatamente riuscii a entrare e a ottenere una borsa di studio per merito, poi confermata per 4 anni. Pensavo che nel mio futuro ci fosse la ricerca pura, invece un incontro di orientamento con un universitario che frequentava il quarto anno di ingegneria aerospaziale al Politecnico cambiò la mia vita: l’entusiasmo, la passione con cui ci parlò della missione, purtroppo fallimentare, dello Space Shuttle Colombia mi conquistarono. Ecco cosa volevo fare: progettare, costruire, sporcarmi le mani come mi avevano insegnato mio padre e mio nonno, entrambi meccanici. Presa la decisione, occorreva trovare la maniera per cambiare ateneo e facoltà senza perdere l’anno».

Ecco l’importanza della Fondazione Rui, scrive la Gazzetta del Mezzogiorno. La Fondazione gestisce dodici Collegi universitari di merito che non forniscono solo vitto e alloggio, ma anche progetti formativi personalizzati: lezioni interdisciplinari del progetto JUMP-Job University Matching Project, incontri di orientamento con professionisti, serate e incontri con ospiti. «La vita in residenza e la dimensione comunitaria e internazionale, insieme alle iniziative di volontariato, fanno il resto», aggiunge.

I collegi di Milano, Roma, Bologna, Genova e Trieste, sono accessibili a tutti grazie ad agevolazioni sulla retta che raggiungono il 90% dei residenti, borse di studio e convenzioni con le università. «Gli incarichi in residenza sono determinanti – spiega – io al terzo anno sono stato nominato Direttore Studi e questo mi ha fatto crescere moltissimo sotto il profilo della leadership: dovevo coordinare l’attività di una trentina di tutor, tra cui me stesso, studenti più avanti negli studi che aiutano gli altri a dare il meglio, a mantenere la rotta anche nei momenti di fatica e di difficoltà. Ero uno scout, avevo già avuto la responsabilità di guidare dei gruppi, ma quell’investitura ha accelerato moltissimo la mia realizzazione personale».

Foto Pugliain

Foto Pugliain

A LIZZANO, SPESSO

Qualcuno a Lizzano dice di averlo intravisto. Scappa a trovare i suoi genitori, fa un po’ di vacanza, assapora il verde e i vigneti, la costa, il mare che da queste parti non ha eguali. Di questo ragazzo-prodigio ne parlavano già diversi anni fa. Non erano in molti a dare peso alla storia. Qualcuno, forse, pensava che quel coraggio giovane fosse a tempo, che alla fine a Giuseppe sarebbe arrivata quella botta di nostalgia e al girare il mondo avrebbe preferito restarsene a casa, creandosi un futuro rispettabile, ma mai così importante. Il nostro, oltre all’italiano parla e scrive correntemente l’inglese e il francese. Non chiosiamo la sua storia con un “…da non crederci”. Intano perché crediamo fermamente che tutto possa accadere e che i sogni vadano inseguiti, accarezzati, sostenuti, unico sistema per vederne concretizzare almeno uno, importante. E’ la sintesi della storia di Giuseppe Cataldo, lizzanese, che da piccolo faceva voli con la mente e, alla fine, anche se è solo l’inizio, è davvero volato negli Stati Uniti, destinazione Nasa, per diventare uno degli uomini di punta dell’Agenzia aerospaziale americana.

«Taranto nel cuore»

Rocco Papaleo, il teatro, il suo film più bello

«“Cozza tarantina” a parte, celebre battuta in un film di Checco Zalone, qui ho girato “Il grande spirito” diretto da Sergio Rubini». L’attore lucano parla di “Peachum” in teatro, ma ricorda anche le riprese realizzate in città. «La pandemia non ha premiato quella pellicola come invece avrebbe meritato». «Le tavole del palcoscenico sono il luogo della costruzione, il grande schermo la celebrazione dell’attore», dice il protagonista di uno dei titoli della Stagione teatrale di prosa

Claudio Frascella

«Cosa mi lega a questa città, Taranto: della “cozza tarantina” diventata un tormentone grazie al film di Checco Zalone, “Che Bella giornata”, nel quale interpreto suo padre, mi piace ricordare il teatro Orfeo, il Tatà, belle esperienze: poi il mio più bel film…».

Breve pausa. Rocco Papaleo è così, non parla di corsa per non offrire il fianco ad interventi che interrompano un concetto. E’ il suo ritmo naturale al quale non pensa nemmeno minimamente di rinunciare. E’ nel foyer del teatro comunale “Fusco”, con il cast incontra il pubblico, modera la giornalista Monica Caradonna, introduce il direttore, Michelangelo Busco. Papaleo è il protagonista di “Peachum: un’opera da tre soldi”, uno dei titoli della Stagione invernale di prosa del “Fusco” e spin-off di una delle opere teatrali più avvincenti di Bertolt Brecht, autore, regista, interprete Fausto Paravidino.

foto Aurelio Castellaneta

foto Aurelio Castellaneta

Dunque, il suo più bel film e Taranto.

«Ho girato proprio qui il mio più bel film, “Il grande spirito”, diretto da Sergio Rubini: non ci fosse stata di mezzo la pandemia questo titolo avrebbe avuto un’accoglienza più generosa nelle sale cinematografiche, ma è andata così e se sto qui a parlarne a tre anni di distanza, vuol dire che quello è stato il film al quale tengo di più, per il personaggio interpretato, se permettete la mia prova d’attore magistralmente diretto da Rubini…».

E, allora, insistiamo sul profilo impegnato. Cosa c’entra lei con il teatro “serio”?

«E’ una risposta che non riesco a dare: tutto quello che faccio in ambito teatrale, televisivo o cinematografico, è serio, nel senso che ci metto il massimo dell’impegno; pertanto non cambia l’approccio, prendo sul serio questo gioco che mi è stato concesso di realizzare».

foto Aurelio Castellaneta

foto Aurelio Castellaneta

Mai interpretato, nemmeno per gioco, un ricco borghese, come le capita per “Peachum”.

«I personaggi che ho deciso di interpretare cucendomeli addosso, in effetti, non hanno mai avuto questa cifra; forse piccolo-borghese, un insegnante piuttosto che un prete, per il resto film minori nei quali non sono stato chiamato a dare questa profondità».

Cosa significa rinunciare alla comodità di fare del cinema, nel senso che la location è quella e non si prevedono eccessivi spostamenti rispetto a un tour teatrale.

«Mi conoscono come interprete cinematografico, ma ho provato spesso ad alternare questa mia attività con quella teatrale: il teatro è la condizione nella quale si matura, ti consente di evolvere in un lavoro nel quale c’è sempre da imparare, proprio per il numero di prove, confronti che portano a discutere, lavorare sulla parola compiendo un lavoro artigianale che il pubblico condivide sera dopo sera: le tavole del palcoscenico sono il luogo della costruzione, il grande schermo la celebrazione dell’attore».

Non sei autore e regista, che effetto fa essere diretti?

«Sono partito lasciandomi guidare, ma Paravidino vuole che durante il percorso si lavori su alcuni meccanismi sulla definizione di quello che io e i colleghi interpretiamo; all’inizio ero più guardingo, ho cercato di assumere una modalità, uno stile che successivamente ho assorbito dando anche qualcosa di mio, comunque sempre organico al progetto».