«Quattro calci di gioia!»

Francois, ivoriano, da più di un anno in Italia

«Un viaggio lungo e tormentato. Recluso e picchiato, poi dato in affidamento per mesi: ero diventato un essere che solo col lavoro poteva pagarsi la libertà. Quando un bel giorno mi dissero che potevo andar via, non prima di aver ricevuto l’ultima “lezione”»

«Quattro caffè, da portar via, grazie…». Il barista riempie i bicchierini di carta e li copre con piccoli coperchi. Lui, dopo aver tirato fuori gli spiccioli, pagato e chiesto lo scontrino, che qualcuno quasi sicuramente gli chiederà, sistema i caffè come fossero una pila alta una ventina di centimetri ed esce dal bar. Si chiama Francois, ivoriano, una trentina d’anni, spiega il titolare dell’esercizio. «Operai che stanno facendo lavori nelle vicinanze – aggiunge il barista – gli assegnano gli incarichi più singolari, non solo l’acquisto di caffè, ma generi di conforto, dai panini ad articoli di gastronomia d’asporto, perfino le sigarette anche se queste non rientrano nel

la categoria di quanto commestibile, anzi…». Il signore che ci parla di Antoine è un virtuoso, ricorda quel ragazzo, cliente da un po’ di giorni, per una prima frase pronunciata in italiano, ma con un chiaro accento francese: «“Che il Cielo ti benedica, amico mio…”, mi disse il primo giorno: perché tanto entusiasmo? Lo avevo trattato con rispetto: questi ragazzi non chiedono altro, vengono da zone di guerra, Paesi dove sono in corso guerre civili e la vita è sempre più legata al grilletto di una pistola o di un fucile».

Lo aspettiamo il giorno seguente, puntuale, arriva Francois, magro, capelli ricci, non lunghi, un’acconciatura più o meno “rasta” se ci abbiamo azzeccato. «Vediamoci più tardi, ora sto lavorando, amico…». Parla bene, bella la sua cadenza francese in un italiano più che approssimativo, quando risponde alla domanda sulla possibilità di conoscere la sua storia e raccontarla ai nostri amici.

Foto Pot Europa

Foto Pot Europa

CAFFE’ AI “COLLEGHI”

Eccolo intorno all’ora di pranzo. Sceglie dei tramezzini, li porta ai colleghi, torna e sceglie anche il suo, accompagna il panino con una spremuta d’arancio. Da più di un anno in Italia, sui trent’anni, sfodera un sorriso accattivante. Fuggito da un Paese, la Costa d’Avorio, nel quale, restando lì fra militari, miliziani e bande armate, corri sempre il rischio di prenderle di santa ragione. E sempre senza un vero motivo. Sei sfuggito a un gruppo di malintenzionati, pochi minuti ti ritrovi accerchiato da altri.

E quando non hai scampo, ecco una gragnuola di calci e pugni, mentre un pugno di complici dell’aguzzino tengono le armi spianate sulla tua faccia. «E’ una storia che si ripete in molti Paesi africani – dice Francois – hai, netta, la sensazione che, come ti muovi, le buschi e nemmeno una sola volta: a me è successo in Libia, dove sono stato prigioniero per più di qualche mese».

«Ho perso mio padre, morto in un conflitto, in piena guerra civile – riprende – a casa ho lasciato la mamma e due sorelle; per compiere il viaggio per arrivare in Italia, ci ho messo sei, forse sette mesi, ho perso il conto: una parte di quel periodo l’ho trascorsa in Libia, un tugurio, più che una prigione».

«Quei mesi li ricordo bene, purtroppo, durante la prigionia mi svegliavano, a qualsiasi ora: calci, pugni, mi colpivano anche con il calcio di una pistola o di un fucile, ovunque capitasse: sul volto, alle spalle, sulle gambe, nelle parti più delicate. «E mentre te le suonavano, ti ricordavano che la tua vita gli apparteneva e l’unica cosa che poteva liberarti era il riscatto che avrebbero dovuto pagare i miei familiari, che in realtà non avevo: già mamma e le mie due sorelle avevano i loro problemi, figurarsi mandarmi soldi perché i miei carcerieri mi restituissero la mia libertà…».

Foto IlGiornaledelCibo

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«L’ITALIA PER ME…»

Cosa rappresenta l’Italia per Francois. «Qui mi sento un uomo libero, protetto, per questo dico che la libertà è il bene più prezioso che un uomo può avere in dono dalla vita: amo il mare, il sole, l’aria fresca, passeggiare, sognare interminabili nuotate».

Il ragazzo ivoriano si fa coraggio. «Vedi, queste sono cicatrici, provocate con lame di coltelli o da sigarette spente per divertimento: a me dicevano di non fiatare, mentre mi torturavano, altrimenti mi avrebbero ammazzato, perché non sapevano che farsene di uno che piangeva, perché piangere non è da uomini: da non crederci, ecco perché una volta arrivato in Italia, ho cominciato a piangere di gioia per smettere solo il giorno dopo».

Per i carcerieri di Francois, la vita ha un prezzo. «Mille dinari libici, duecento euro per intenderci: tanto valeva la mia vita in quelle settimane, perché per loro io ero già un peso: pane e acqua avevano un costo, mi ripetevano».

Come se la cavò, Francois. «Visto che non potevo farmi mandare soldi da casa, mi affidarono a un signore che aveva bisogno di manodopera nel suo giardino, in casa: l’uomo aveva rispetto, non urlava, non mi picchiava, al contrario di quei carnefici che, come fossi una bestia, mi accompagnavano sul posto di lavoro e la sera venivano a prendermi: mesi così, poi finalmente a qualcuno venne in mente che potevo andare via. Mi rifilarono quattro calci, uno dietro l’altro, li prendevo e piange, ma di gioia: ero un uomo libero e scappavo, scappavo, scappavo…».