Nigeriano, trentasette anni, fuga, Libia e Italia

«Costruisco e riparo motori. Sogno di riunirmi con moglie e figlio, Gloria e Kingsley. Il mio chiodo fisso: l’italiano, volevo impararlo in fretta. Corso di alfabetizzazione a “Costruiamo Insieme” e primo titolo di studio italiano!»

Una cosa ci aveva colpiti nella prima chiacchierata con Rex: la sua voglia di imparare in fretta. Non solo l’italiano. Lui, nigeriano, trentasette anni, fede cattolica, moglie e figlio, Gloria e Kingsley, rimasti nel Paese di origine, aveva voglia di fare tanto altro ancora. «Mi piacerebbe trovare lavoro e dignità – ci ripeteva – due cose che nella mia Nigeria in molti hanno dimenticato: imparare l’italiano, trovare un lavoro, farmi raggiungere da mia moglie e mio figlio, nel frattempo cresciuto, diventato – come dite da queste parti – un ometto, qualcosa che sta fra il ragazzo maturo e l’uomo di esperienza; bene, io immagino così il mio Kingsley…».

Una delle cose buffe che faceva Rex, davanti a noi, mentre facevamo due passi in centro, a Taranto, era una sorta di corsa ad ostacoli con l’italiano. Non aveva davanti un giornale o un libro di alfabetizzazione, un corso svolto a “Costruiamo Insieme”, bene, senza porre tempo in mezzo, il trentasettenne nigeriano leggeva le insegne delle attività commerciali. Tu gli chiedevi se avesse voluto un caffè, lui quasi non ti sentisse, rispondeva con «Abbigliamento, profumeria, ottico, supermercato, casa del disco, casa del rasoio… ». Non si fermava un attimo, se non lo mettevi davanti a cose fatte e, con garbo, lo facevi voltare dalla parte giusta. «Rex, sai cosa è scritto su quell’insegna, vero?». E lui, studente appassionato di libri e lettura; «Bar…caffè!». Eccolo servito. Anche mentre sorseggia il “benedetto” caffè trova l’occasione per bisbigliare qualcosa. «Zucchero, canna, pasticceria…lìstino!». Sull’ultimo sostantivo scivola sull’accento, ma avrà tempo per imparare bene l’italiano. Potessimo parlare noi così bene il suo inglese, la lingua ufficiale della sua Nigeria.

MOTORI E MOTORINI…

«Il mio Paese, sempre nel cuore – ci ha ripetuto più volte Rex – come si fa a dimenticare le radici, lì ci ho lasciato cuore e anima: avevo papà, mamma e sei fratelli, abitavamo insieme, una famiglia patriarcale la nostra; mio padre, che adesso non c’è più, mi aveva trasmesso la voglia di spendermi per la famiglia, lavorare da mattina a sera, compiere mille sacrifici perché i “miei” – mia moglie Gloria e mio figlio Kingsley – fossero orgogliosi di me».

Due lavori in un solo giorno. «Io e mio padre avevamo un’auto, piccolo investimento del mio genitore, giravamo per la città imbarcando sul mezzo quanti sarebbero dovuto venire con noi nei campi, perché tutte le mattine ci toccava raccogliere qualsiasi cosa, dalla frutta agli ortaggi; al ritorno, stesso giro, tutti a casa, noi che avevamo accompagnato i colleghi dei campi nelle rispettive abitazioni, andavamo a dormire più tardi di tutti i passeggeri…».

Non solo tassista, contadino, Rex è anche un uomo pieno di risorse. «Ho sempre amato il lavoro di meccanico – spiega – sono molto bravo a realizzare sistemi meccanici, motori piccoli e grandi; motori e motorini – non quelli a due ruote, puntualizza – ma per pompe idrauliche, tanto per fare un esempio: nel mio Paese sono importanti, intanto perché in molte case non hanno l’acqua corrente, lo stesso contadini e proprietari di terreni per coltivare qualsiasi cosa; anche questi devono lavorare e dare lavoro, far fruttare la loro terra e raccoglierne i frutti; in Italia è diverso, non avete problemi idrici…».

Quasi si dispiace Rex. Più per non essere utile alla causa, ma poco importa, considerando che è un uomo dalle mille risorse. «Lo scopo principale è trovare un lavoro e riabbracciare mia moglie e mio figlio, farli venire in Italia, far compiere loro il mio stesso percorso di apprendimento».

Rex ha rimosso certe cose, vorrebbe non parlarne, ma fa come il gambero – mima i passi indietro – torna sui momenti più brutti vissuti proprio nella sua Nigeria e, successivamente, in Libia, dove ha dovuto finanziarsi il viaggio in mare con otto mesi di lavoro, anche stavolta nei campi. «Un giorno ero in un bar – ricorda – con dei miei amici, si parlava del più e del meno, magari anche di sport, certamente non di politica: in una normale ricognizione in giro per la città, si fermò un convoglio di soldati; forse qualcuno aveva fatto loro una telefonata anonima, chissà, fatto sta che in quel locale quei militari erano piombati in modo violento: armi in pugno ci avevano rovistati, per vedere se avevamo pistole o coltelli; non erano soddisfatti, ci spinsero su un camion e ci condussero in caserma, di lì a poco fummo processati su due piedi e tradotti in carcere: ci avevano inflitto una pena di tre anni perché – stando alla loro tesi – in quel bar ci eravamo riuniti per rovesciare il governo!».

SCONTO DELLA PENA

Non tre anni, ma due. «Sconto della pena – ricorda Rex – per buona condotta; non avevamo studiato alcun piano, ci avevano condannati e alla fine dovevamo dire “grazie” per non averci tenuti lì ancora un anno…». La Libia. «A quel punto rischiavo di diventare matto – le sue conclusioni – non era più il caso di restare in Nigeria, così salutai la mia famiglia e mi allontanai: mi fermai del tempo in Niger, per poi spingermi in Libia, anche se l’obiettivo grosso era l’Italia, il mio pensiero era rivolto al vostro Paese».

Libia, una tristezza. «Non era più quel Paese di cui si diceva un gran bene, ma solo il passaggio obbligatorio per arrivare in Italia: un panino per ogni giorno di lavoro, metà a pranzo e metà a sera, nient’altro; quel panino ce lo pagavamo con giornate nei campi, lo stesso il fitto di un locale nel quale ci ammassavano per poi farci uscire il mattino seguente per spezzarci ancora la schiena raccogliendo frutta e ortaggi».

Dopo otto lunghi mesi, la libertà. «I nostri carcerieri pensarono che quell’attività fosse stata sufficiente – prendevano denaro dai proprietari dei terreni – per lasciarci andare via: ci imbarcammo in una settantina, fummo raccolti da una nave mercantile spagnola di passaggio che, a sua volta, ci consegnò a una nave militare italiana. Catania, un lungo viaggio in autobus, finalmente Taranto, “Costruiamo Insieme”, un primo corso di alfabetizzazione e il mio primo titolo di studio sul suolo italiano!».