Waseem, chef di “Costruiamo Insieme”
Pakistano, ventuno anni, imbattibile dietro i fornelli. «Non preparo solo riso speziato con pollo, mi diverto a preparare tanto altro. Ho patito la fame, poi il contratto con la cooperativa: mi è scoppiato il cuore di gioia!». Un mese in marcia, dall’Iran alla Turchia, senza toccare cibo e acqua. Nella sede di “Costruiamo Insieme”, c’è una cucina a pieno regime. Fra fornelli e pietanze, chef e collaboratori. Ragazzi che hanno imparato il mestiere a casa propria, altri che con la massima applicazione, hanno imparato che le ricette non sono tutte cipolla e peperoncini. Esiste altro. Certo, da queste parti gli ospiti preferiscono riso speziato con pollo. Ma anche per i ragazzi che fra i fornelli mescolano tradizione e integrazione, dopo aver replicato pietanze prelibate, vogliono far circolare la fantasia. Dunque, “piatti” non lontani dai loro menù, ma ogni tanto è bene cambiare. «Anche per una soddisfazione professionale, non ho studiato e seguito corsi nel mio Paese per preparare un solo piatto; poi, per dirla tutta, connazionali e ospiti del Centro di accoglienza non ci metterebbero molto a dire che so cucinare solo riso speziato con pollo!».
E’ Waseem, lo chef di “Costruiamo Insieme” con il suo contratto di lavoro firmato con la cooperativa – cosa che gli ha fatto scoppiare il cuore di gioia – ad anticipare qualche buontempone. Ventuno anni, pakistano, magro, un principio di barba e sorriso, quando può si smarca dall’italiano. «Lo comprendo perfettamente, ma se non è proprio necessario parlarlo preferisco ascoltare; quando non comprendi la loro lingua, gli italiani ti si rivolgono aiutandosi, sforzandosi nel farsi capire con il sistema più antico: a gesti; è questa una delle prime cose che ho imparato quando, due anni e mezzo fa, sono arrivato in Italia: parlare quando necessario e interpretare i gesti, fino ad oggi mi sono trovato bene». Anche alla presenza del connazionale Idrees, che fa da interprete, Waseem è prudente. «Sono arrivato in Italia – racconta – da Gujrat, una importante città del Pakistan dove ho lasciato praticamente tutti i miei affetti: papà, mamma, quattro fratelli e una sorella».
Dal suo Paese all’Italia, il passo potrebbe sembrare breve. Sicuramente tribolato. Parla poco, ma riflette molto Waseem. «Sono passato attraverso l’Iran per proseguire per la Turchia: sono Paesi complicati, per carattere ci vuole molto poco a fare in modo che qualcuno di questi ti prenda sulla punta del naso e ti faccia male».
Un mese di viaggio. «Sono stato senza mangiare per almeno una settimana, non è facile convivere con la fame: oggi che quell’esperienza è lontana, i miei colleghi, gli amici, quasi mi prendono in giro: “Ti sei infilato in cucina – scherzano – e da lì non esci più!”, quasi avessi paura di una “ricaduta”, cioè un incontrollato attacco di appetito. Il viaggio, un mese, sì: la cosa brutta di quella esperienza è la sensazione di camminare su uno strapiombo, come se la mancanza di forze da un momento all’altro possa farti precipitare nel vuoto; ho camminato un mese senza un attimo di sosta, senza sapere quanto sarebbe durato quella penitenza: una settimana, un mese, un anno, chi poteva saperlo. Poi in una settimana, dormendo ovunque capitasse, senza toccare cibo, pensando che il giorno dopo sarebbe stato quello giusto e che avrei messo qualcosa sotto i denti».
Potenti mezzi della tecnologia. «Sento e vedo spesso i miei parenti, stanno tutti bene, sono felici di sapermi in salute e con un lavoro importante: a differenza di quanto dicono parenti ai miei connazionali, papà e mamma, ma anche i fratelli, non mi chiedono di tornare: “Stai bene lì, figliolo? E, allora, resta in Italia”; non sapevano dove fosse Taranto, ora anche loro conoscono questo angolo dell’Italia, un Paese accogliente, una città bella dal punto di vista umano. In Pakistan ho studiato, ma avevo voglia di diventare chef, tanto che ho fatto un corso di sei mesi. Certo, posso fare biryani, riso speziato con pollo, da mattina a sera, bendato e con un braccio dietro una spalla, ma ho studiato e imparato tanto altro che sarebbe un peccato non metterlo in pratica: insomma, cucino africano e non solo».
Spegniamo per qualche istante i fornelli, torniamo alla storia personale di Waseem. «Un mese in cammino, la fame, la sete, poi finalmente Istanbul, centro industriale e culturale della Turchia. Una volta arrivato lì, ho contattato qualcuno che fosse a conoscenza di chi stava organizzando un viaggio per attraversare il Mediterraneo e raggiungere l’Italia: mano in tasca, via le ultime risorse di cui disponevo e via, in cinquantasette a bordo di una imbarcazione; paura in mare aperto, fino a quando siamo stati avvistati e accolti da un’altra nave che ci ha trasferito all’hotspot di Taranto. Sono rimasto qui, ho lanciato un appello, raccolto da “Costruiamo”: grazie alla cooperativa ho un lavoro, posso pagare il fitto di casa e dedicarmi alla cucina. Ma non solo a base di riso speziato e pollo!».