Kwame, guineano, venticinque anni
«Ho imparato a mie spese che anche le ferite servono a imparare. Trovai un posto di lavoro, sfruttato, mal pagato e, alla fine, insultato pesantemente. Ma gli italiani non sono tutti così, c’è un sacco di gente per bene: fidatevi, ho trovato un lavoro decoroso, i colleghi mi rispettano e siamo diventati grandi amici…»
«Gli italiani non sono tutti uguali, non appena sbarcato in Italia ho avuto problemi di ambientamento, sono stato bene accolto dal Centro di accoglienza tarantino, poi, con il carattere che mi ritrovo e che forse non aiuta così tanto, mi sono lanciato alla ricerca di un lavoro: la prima attività non è stata una grande esperienza, sono stato trattato male sotto tutti i punti di vista…».
Kwame, guineano, venticinque anni, orfano di papà, mamma e due sorelline in patria, racconta la sua prima esperienza di lavoro nella nostra provincia. Poi glissa, prova a cambiare argomento. Non gli va di parlare di quella breve storia, così umiliante che prima la dimentica meglio è. E, invece, insistiamo, il rispetto nei suoi confronti e la rivincita sua e dei nostri ragazzi deve essere il nostro pane quotidiano.
«Come mi capitava spesso di vedere mentre giravo in città – accetta di parlarne il venticinquenne guineano – miei connazionali, ma anche fratelli di altri Paesi africani, giravano per negozi, attività commerciali per chiedere se ci fosse lavoro per loro, anche saltuario: c’era già chi lavorava al mercato, in un ristorante o in una pizzeria, chi in un supermercato; anche io mi feci coraggio e cominciai a girare per chiedere lavoro…».
Primo impatto, traumatico. «Parlo bene il francese, l’italiano lo capisco abbastanza bene; certo, per comprendere la vostra lingua devo pensare per qualche istante, per tradurlo bene in mente, ma poi so anche farmi comprendere: quella volta non fu molto bello, ma capisco anche una certa seccatura: “Senti, amico mio – mi rispose il titolare di un ristorante-pizzeria – sei già il terzo che passa da qui stamattina, tutti neri come te, non ce la faccio più: andate a lavorare nei campi, lì c’è bisogno di gente che vuole lavorare, vi alzate alle quattro del mattino, andate nei campi e alle due avete finito…”; il primo colloquio di lavoro non era stato incoraggiante, ma non mi detti per vinto fino a quando, un altro signore, il titolare di una trattoria, non mi disse: “Mi sembri un ragazzo per bene, vieni domani mattina, ho per te un lavoro da lavapiatti; anche io ho cominciato da lì, più avanti potresti cominciare a fare l’aiuto cuoco, a stare prima fra i fornelli e poi fra i tavoli”».
PRIMA UNA CAREZZA, POI…
Detto così, una prospettiva più che incoraggiante. «Mi accorsi più in fretta del previsto che quel signore non era così tanto per bene come mi era sembrato a prima vista, cioè educato, sorridente, disponibile; un lavoro massacrante, da mattina a tarda sera, a lavare stoviglie, sgrassare posate, pentole e pentoloni, pulire per terra, portare al lavaggio le tovaglie e sostituirle con quelle pulite; il titolare, quello sorridente, aveva cambiato strategia: non faceva che urlarmi, dovevo sbrigarmi, darmi da fare perché i clienti erano prossimi ad arrivare a pranzo e cena».
Primo contrattempo. «I miei seicento euro – ricorda Kwame – non arrivavano mai, era passata una quarantina di giorni, ma non vedevo un euro: un acconto di cento euro, poi più avanti altri cinquanta euro… Era chiaro che non mi volesse più dare la somma pattuita se avevo raccolto appena trecento euro nei primi due mesi: lasciai, non era il caso continuassi, feci in modo che mi cacciasse, mi dette altri cento euro, fui minacciato e andai via. “E non farti più vedere!” e tante altre cose appresso, che ho voluto dimenticare».
Ma per fortuna, diceva il ragazzo guineano, non tutti sono così. «Qui ho imparato la saggezza popolare di frasi come “Si chiude una porta e si apre un portone”, per questo dico che la gente non è tutta uguale: ancora un ristorante-pizzeria e subito un contratto da ottocento euro e, soprattutto, ore di lavoro umane e massima puntualità nello stipendio; facevo turni settimanali, una volta al mattino fino all’ora di pranzo, la volta successiva dal primo pomeriggio all’ora di cena… Poi, nei mesi successivi, anche un piccolo aumento; ecco perché non sono tutti uguali…».
…LA SBERLA!
C’è qualcosa che brucia dentro, Kwame. «Da quando cominciai a chiedere i soldi che mi spettavano – dice, ripensandoci, gli occhi lucidi… – iniziò contro di me qualsiasi tipo di offesa, la cosa più grave – per me, igienista convinto – era che non avessi cura dell’igiene personale, così il titolare, spalleggiato dal suo più stretto collaboratore, mi diceva che dovevo lavarmi e mettermi tanto deodorante, perché mentre sistemavo i tavoli un cliente aveva detto – ma ci credo poco… – che puzzavo: una grande umiliazione; dicevano che avrei dovuto lavarmi con il detersivo, sfregarmi con la spugna dalla parte della retina… questa cosa, insieme con i pagamenti che non arrivavano mai, mi fece capire che era meglio cambiare aria».
«Ora da due anni – dice il giovane guineano – lavoro in questo locale, ho degli colleghi in gamba con i quali ho anche un rapporto fuori dall’ambiente di lavoro; penso di essere rinato: è proprio vero, chiusa una porta si apre un portone e poi ho anche imparato che “La felicità più grande non sta nel non cadere mai, ma nel risollevarsi sempre dopo una caduta”».
Condividiamo. Anche se non crediamo sia stato un nostro saggio ad averla pronunciata questa frase. Appartiene più alla cultura orientale. Comunque, il senso è identico. Tanta fortuna, Kwame.