Murad, bengalese, diciotto anni

«Voglio regalarla ai miei genitori rimasti in Bangladesh. La vita è triste lì, ho dovuto lasciare gli studi e il mio Paese per fame. Avevo paura del mare, mi hanno legato per farmi imbarcare per l’Italia. Lavoro in un supermercato, ho datore e colleghi speciali»

Copertina articolo 02 - 1Da un anno e mezzo in Italia, parla già bene l’italiano. Si aiuta anche a gesti, Murad, diciotto anni, bengalese di Rangpur. Ha un sogno: regalare una casa a papà, mamma e due fratellini. «Lavoro da un po’, part-time – specifica il ragazzo arrivato dal Bangladesh – in un supermercato, una di decina di colleghi in tutto, una squadra affiatata».

Murad, non ancora maggiorenne, decide di prendere il coraggio a due mani. «Dovevo partire – spiega – le cose lì, nel mio Paese, non funzionavano bene: mio padre, salute cagionevole e sottoposto a cure; mia madre, senza lavoro; un fratello di dieci anni e una sorellina di appena sei, da mantenere come meglio possibile: la fame colpisce il Bangladesh, dove puntualmente si abbattono le peggiori catastrofi; una bocca in meno da sfamare è come tirare un sospiro di sollievo: amo la famiglia, mi assale una mezza intenzione di partire in cerca di fortuna e i miei genitori fanno il resto, assecondano questo mio principio di desiderio; ci ho pensato un po’ su, credo che il miglior sistema per aiutare la famiglia, fosse quello di partire e provare a trovare un lavoro che permettesse di mandare un po’ di soldi a casa, da qualsiasi parte del mondo mi trovassi».

Una decisione assunta più o meno in fretta. Consideriamo i diciassette anni con vista sui diciotto. Per Murad non è una decisione facile. «Diciamo anche sofferta – confessa – un po’ come staccare le radici e andare a metterle da un’altra parte, non per un tuo capriccio, ma per il tuo bene e, soprattutto, per il resto della famiglia; il primo campanello d’allarme, a proposito del grado di povertà verso il quale consapevolmente dirigendo, è stato lo stop allo studio: non avevamo più le risorse economiche perché io continuassi a studiare; dalle mie parti se non hai qualche soldo, difficile che possa andare a scuola: qui tutto ha un prezzo».

PRIMA DELL’ITALIA, LA LIBIA…

Ma i familiari, verso i quali Murad, fede musulmana, è devoto, compiono un ultimo sforzo. «Papà, mamma e zio mettono insieme gli ultimi risparmi e mi comprano un biglietto aereo per la Libia; mi imbarco, arrivo a Tripoli, lì incontro qualche problema: rispetto a miei connazionali e altri migranti, mi ritengo relativamente più fortunato: non vengo catturato da milizie civili e sottoposto a maltrattamenti».

Per il ragazzo bengalese già questa è una fortuna. «Come vogliamo chiamarla – osserva – non sono stato picchiato, sottoposto a fame o altra vessazione; piuttosto il lavoro, quello sì, l’ho subito trovato: ma fra il lavorare e avere un salario, da quelle parti ce ne passa; ho lavorato ad un distributore di benzina, la mia paga era il cibo che mi davano per sfamarmi, soldi niente: ma non era poi come sembrava…».

Anche qui, Murad, in un contesto sicuramente di grave disagio, ha un colpo di fortuna. «A mia insaputa, il titolare della stazione di servizio, un bel giorno arriva con un paio di suoi amici in auto; mi invita a salire a bordo, chiedo inutilmente di sapere dove fossimo diretti; in quei momenti vieni assalito dalla paura: lontano dalla famiglia, al cospetto di gente che hai appena conosciuto, ti balenano mille pensieri; vinco la prima diffidenza e faccio bene, perché a bordo dell’auto arriviamo al porto dove è in partenza uno dei tanti gommoni della speranza sul quale sarei dovuto salire».

Un contrattempo che sulle prime il ragazzo quasi si vergogna a raccontare. «Non avevo mai visto il mare: mai! Il mare aperto, poi, mi metteva una grande paura; in quel momento vengo assalito dal dubbio: tentare la fortuna in un altro Paese, in questo caso l’Italia, o restarmene in Libia, a fare il benzinaio per pane e acqua? Evidentemente sono ancora acerbo per assumere una decisione così fondamentale, avevo tanta paura da impuntarmi, rinunciare al mio personale “viaggio della speranza”, così il dubbio, in un attimo, lo sciolgono insieme il mio datore di lavoro e i suoi amici: mi legano e quasi mi lanciano a bordo del gommone; li ringrazierò a vita, senza la loro determinazione non so dove starei ancora oggi: con quelle settimane di “lavoro non retribuito” avevo praticamente riscattato il viaggio per le coste italiane: grazie!».

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E IN VIAGGIO PER IL SOGNO

Il cuore, a bordo di una imbarcazione che somiglia più a una zattera, palpita. «Batteva forte, c’era da restare secchi: avevo paura del mare, non sapevo nuotare, avevo aggiunto paura ad altra paura; il viaggio dura un giorno e una notte, veniamo svegliati dal rumore di un elicottero della Marina italiana: salvi! Da lì a poco arriva una nave militare, sempre italiana, saliamo a bordo, veniamo rifocillati e ci dirigiamo direttamente a Taranto».

Finalmente in Italia. «Una forte emozione: piangevo dalla gioia e dalla voglia di farlo sapere a casa; mamma la sento ogni settimana, ogni volta è una gioia: lei dice di restare, papà invece vorrebbe tornassi a casa; ora che, poco per volta, sto realizzando il mio sogno, non me la sento di tornare: voglio mettere insieme diecimila euro e spedirli a casa perché finalmente la mia famiglia torni a vivere decorosamente».

Poi, adesso, ci sono un sacco di amici qua. Non solo quelli della cooperativa “Costruiamo Insieme”. «Vero, mi organizzo per andare a lavoro – conclude Murad – a volte con i mezzi pubblici, a volte in auto con i miei colleghi: mi hanno preso a benvolere, nel supermercato mi occupo di magazzino, sistemo la merce, curo la pulizia del locale; ho un datore di lavoro che mi vuole bene e amici che mi rispettano, più di così: il mio sogno voglio realizzarlo mattone dopo mattone; proprio come fosse quella casa che voglio regalare ai “miei”: con l’aiuto del Cielo spero di farcela».