Awal, beninese, ventotto anni, operatore di “Costruiamo Insieme”
In Italia per caso, aveva nella testa mille preoccupazioni. «Con il lavoro che mi ha dato la cooperativa, in un attimo ho cancellato molti pensieri. Cinque anni lontano dal Benin, ho lavorato in Algeria e Libia. Qui esiste rispetto ed educazione, ma non vorrei passare per ruffiano…»
«Con un posto di lavoro, di colpo i problemi diventano più piccoli, di colpo il peso delle domande diventa leggero…». Storia di un ragazzo felice, passato attraverso una fuga, lunga, i sacrifici e un sole che, un giorno, ha cominciato a vedere dalle prime luci dell’alba, dopo una lunga notte fonda. «Qui sto bene da matti, lavoro, ma la cosa più bella, fra le altre, è il rispetto del quale godo ogni giorno che il Cielo manda in terra: chi organizza il nostro lavoro, ogni volta che chiede una qualsiasi cosa si rivolge a me e ai colleghi con un “Per favore…”; prima di allora avevo sentito miei connazionali e altri ragazzi, africani come me, che lavorano altrove, in tutta Italia: il trattamento a loro riservato non è, quello che si dice, dei migliori».
Awal, ventotto anni, operatore, viene dal Benin. Nel suo Paese, Africa occidentale, che confina con Togo, Nigeria, Niger e Burkina Faso, ha lasciato due sorelle e la mamma. Un fratello è in Algeria, titolare di una piccola attività nel campo dell’abbigliamento. Si dice soddisfatto del suo lavoro di operatore a “Costruiamo Insieme”. Di più. «Sono felicissimo, penso si veda…». Un sorriso panoramico, denti bianchissimi, in netto contrasto con la sua pelle nera, scura come la notte. Sul suo viso, spiccano anche gli occhi, un po’ malinconici, un po’ sorridenti. Quando parla del suo Paese, della sua fuga, si incupisce. «Non conosco gente – dice – nel mio Paese come altrove, in Africa, che scappi dalla propria terra perché sta bene; se andiamo via un motivo ci sarà: viviamo male, c’è chi ha forza e coraggio, come me, perché alla fine è un salto nel vuoto, non sai cosa possa riservarti un viaggio infinito, e allora va via; altri, loro malgrado, restano, perché hanno paura, non sanno cosa possa riservargli una fuga».Adesso sorride, Awal. Vuole spiegare meglio. «Molti pensano che veniamo in Italia – riprende – o nel resto d’Europa, perché vogliamo vivere nella massima assistenza, non lavorare e farci mantenere da un qualsiasi governo ospitale: non è così. Personalmente ho sempre lavorato, cercato lavoro ovunque andassi e io sono passato anche attraverso l’Algeria, lavorato per qualche mese con mio fratello: avrei potuto restare con lui, dove mangia una famiglia, uno in più, per giunta parente, non è un problema, l’ospitalità è sacra; ma io volevo andare via dall’Africa, quando ho preso la decisione più importante della mia vita, scappare, mi sono posto quale obiettivo lasciare il mio Continente».
L’Italia non era la sua destinazione. «Sono arrivato qui per caso, non sapevo come si stesse in Italia: cercavo un Paese che mi desse un’occasione di lavoro; con “Costruiamo Insieme” ho trovato ospitalità e una mansione che svolgo con grande scrupolo».
Via dal Benin. «Un viaggio lungo – ricorda per noi Awal – sono andato a trovare mio fratello, che ha un’attività di abbigliamento: confeziona abiti, fa un po’ il sarto, un po’ il commerciante di vestiti; non è come qui, in Europa: la fabbrica fa confezioni e negozi vendono vestiti e tutto il resto… Lavora molto, sono stato un po’ con lui, ho messo da parte i soldi necessari per proseguire il mio viaggio e arrivare in Europa. Ma non era finita, di mezzo c’era ancora la Libia. Avevo fatto un corso da saldatore, così ho cominciato a fare questo lavoro, sei mesi pieni: guadagnavo ancora qualcosa da mettere da parte e pagarmi finalmente il viaggio decisivo, quello che mi avrebbe portato intanto qui, in Italia…».Una imbarcazione, novantadue imbarcati. Incredibile come i ragazzi ricordino perfettamente il numero di passeggeri che prendono posto su un gommone di fortuna o un barcone. Ma c’è una spiegazione. «Semplice: ti informano uno, due giorni prima, tu aspetti solo il tuo turno: quando tocca a te, come gli altri fortunati, cammini su un pontile stretto, sotto gli occhi di tutti, comincia la conta: uno…due…tre…». E’ così. «Novantadue imbarcati, a mezzanotte, mare e cielo di un solo colore, nero, l’uomo alla guida dell’imbarcazione munito di bussola e telefonino: dopo dodici ore di mare eravamo a bordo di una nave militare italiana, sani e salvi; arrivammo ad Agrigento. La sosta in Sicilia è durata, quattro, forse cinque giorni fino a quando non siamo stati trasferiti a Taranto in un Centro di accoglienza, che non era quello in cui opero oggi. Dopo un po’, “costruiamo Insieme”, il CAS con cui sono stato prima ospite, poi operatore. Ho studiato, conseguito il mio titolo di studio; non mi sono fermato qui, voglio mettere insieme tutte quelle tessere del mosaico che mi permetteranno di guardare con serenità al mio futuro e risolvere il resto dei problemi che mi sono portato dietro; poca cosa rispetto a quelli che avevo trascinato via dal mio Paese: ora ho da dormire, mangiare, il mio lavoro, i miei risparmi, la mia vita sociale, penso sia più di un buon inizio…».Sorride, Awal. Glielo facciamo notare. Condivide. «Questo sorriso lo sfodero da un anno, sarà una coincidenza, ma da quando lavoro con “Costruiamo Insieme” ho un approccio diverso con la vita, con gli altri, non voglio nascondere la mia felicità: penso di aver compiuto un grande salto, ma non mi riferisco allo stipendio, mi piace mettere al primo posto il rispetto e l’educazione che hanno tutti nei miei confronti; per me è un grande insegnamento, ho imparato io stesso quanto siano importanti questi due aspetti nel vivere civile: educazione e rispetto. Bene qui esistono tutti e due…».
Fine della conversazione. Si alza, Awal. Fa un passo indietro. «Scusa, mi rileggi l’ultima parte degli appunti?», domanda. “Rispetto, educazione: altrove non è la stessa cosa”, gli rileggiamo. «Non è forse meglio cancellare? Altrimenti sembra che lo abbia detto apposta e qui, come dite voi, passo per un “ruffiano”…». Awal, tranquillo: è bello così. La gente, i connazionali, gli altri ragazzi di pelle nera, che ci leggono devono sapere che esiste gente rispettosa. Gente amica. Il ragazzo venuto dal Benin, oltre a educazione e rispetto ha imparato la discrezione. E a non essere “ruffiano”, come dice lui. Ma anche gli altri devono sapere. Gli italiani stessi devono saperlo.