Ivoriano, fuggito dalla Costa d’Avorio, la prigionia, il miracolo
«Non me ne separo nemmeno a Natale. Ero ostaggio di gente priva di scrupoli, un uomo mi scelse per il mio indumento da lavoro. E mi aiutò ad imbarcami. Sogno un’officina per riparare tir e autotreni, e mia madre a contare i soldi…». Storia di Alfa, più di trent’anni, un futuro da meccanico.
«Non mi separo dalla mia tuta da meccanico nemmeno a Natale, mi porta bene, mi ha salvato la vita: lassù qualcuno mi ama!». Alfa, nato in Costa d’Avorio, ragazzone di più di trent’anni, accento francese, in passato ci aveva raccontato la sua fuga avventurosa, anche a tinte drammatiche. «Scappai dal mio Paese – spiegò – nonostante il regime fosse stato ribaltato, chiunque avesse una divisa si sentiva in diritto di dettare legge, dunque se alzavi il capo per dire come la pensavi, le prendevi, fino a quando non ti provocavano ferite sanguinanti: avevo il dolore nel cuore, nonostante il vecchio presidente con la moglie fossero stati condannati per crimini contro l’umanità, non si avvertiva il benché minimo benessere: non c’era via d’uscita, se non la fuga verso quella che per me rappresentava la libertà: allontanarmi dalla mia “Costa d’Avorio”».
Facile a dirsi e, questo, Alfa lo sa. «Se tengo stretta a me la mia tuta da meccanico, non di auto, ma di camion, tir e autotreni, è perché questa mi ha già salvato la vita». Sorride Alfa, la sua vita sembra un film, fra alti e bassi, fatto di palpitazioni sempre più forti. «Il mio lieto fine è stato “Costruiamo Insieme”, il Centro di accoglienza dove una volta arrivato in Italia – avevo quaranta di febbre, mi sentivo morire – sono stato preso in cura e restituito alla vita, al sorriso, oggi posso anche dirlo a voce alta: al sogno; ovunque, lontano da un Paese dove la democrazia è solo sulla carta e dove non mi è vietato sognare».
Ha un sogno Alfa, lo sussurra, quasi si vergognasse. «Trovare un lavoro fisso, impegnativo, fare un po’ di soldi da mettere da parte e tornare a casa, finalmente aprirmi un’attività meccanica e far sedere mia madre dietro una scrivania a contare il denaro…». Puntualizza. «Ripeto questa storia solo perché stiamo parlando di un sogno, come se in un film chiudessi gli occhi e con un colpo di bacchetta magica mi trovassi ad essere titolare di una grande officina».
L’ALBERO E UN SOGNO
Non c’è niente di male. Ma in attesa che il sogno diventi realtà, glielo auguriamo di cuore, magari Alfa la sua “lotteria” la trova sotto un albero di Natale sotto forma di regalo. Tutto può succedere. E non è necessario essere cattolico, posto che l’albero non è strettamente legato alla fede più diffusa in Italia. Ci pensa lui. «Nel mio Paese – spiega Alfa – la maggior parte sono musulmani, più o meno la metà; poi ci sono i cattolici, molti anche loro, ma mai quanti credono nell’Islam: in Italia il Natale è tutto panettone e bollicine, da noi non è festa se non si serve in tavola la carne, simbolo della celebrazione».
Torniamo alla tuta che ha salvato la vita ad Alfa. «Devo fare un passo indietro però – il peggio è passato da quasi due anni, può sorridere mentre ce lo racconta – una volta salutata mamma supero Burkina e Niger, dove mi impegno per un anno in lavori saltuari, ma la prima meta è la Libia; da noi quel Paese era un miraggio, ci sono sempre arrivate notizie incoraggianti, dopo un periodo di incertezze quel Paese dava segnali di rilancio: purtroppo non era proprio così, lo imparai a mie spese; fui afferrato da gente armata fino ai denti e sbattuto in un campo con altri cento come me: disperati, senza un futuro all’orizzonte, casa mia e di quella gente tenuta in ostaggio era diventata quel campo nel quale vivevamo di stenti; di mangiare ogni giorno, nemmeno a parlarne, né a provare a farci capire che eravamo davvero allo stremo, avremmo rischiato di essere picchiati».
«…QUELLO CON LA TUTA!»
La tuta, Alfa ci tiene con il fiato sospeso. «Un giorno arrivò la mia lotteria: un signore, ben vestito, fra quanti erano piegati o raccolti in un angolo, indicò me; non uno qualunque, ma proprio me. Una volta pagato il riscatto ai nostri carcerieri, mi confessò che lo aveva impressionato la mia tuta, la indossavo come se fosse un attrezzo da lavoro e, in effetti, lo era stata davvero; questo signore aveva una specie di autofficina, bene attrezzata e, per giunta, non gli serviva un meccanico per auto – cosa che avrei provato a fare, pur di non tornare indietro nel “villaggio dei dannati” – ma per tir e autotreni, proprio l’attività che svolgevo con una certa pratica già nel mio Paese; lavoravo e mi pagava, io incassavo e mettevo da parte: volevo lasciare la Libia, nonostante il pericolo scampato quella prigionia mi aveva messo paura».
Cinquemila dinari libici l’equivalente di tremila euro, il costo del viaggio per l’Italia. «Per fortuna non fui derubato – conclude Alfa – fu lo stesso uomo che mi aveva salvato e aiutato ad accompagnarmi all’imbarcazione per l’Italia: ai saluti ci abbracciammo, lui stava perdendo un amico e un collaboratore, io un titolare e un uomo degno di grande rispetto; mi imbarcai con quaranta di febbre, avevo paura di un collasso: mare aperto, il giorno dopo, nel tardo pomeriggio, una nave militare italiana, l’Italia, il ristoro, le cure mediche, cominciava la mia nuova vita».