Muzi, gambiano, dalla disperazione a un abbraccio infinito
«Salvo, nonostante gli avessi tirato un morso disperato. In un mare in tempesta, quel fratellone mi allungò il suo bidone vuoto al quale aggrapparmi. Non avevo più forze, lui ne avrebbe avuto ancora per venti minuti, forse mezz’ora. Le acque agitate avevano inghiottito centotrenta dei centosessanta passeggeri di una imbarcazione che faceva acqua. Pensavo non ce l’avesse fatta, quando nel centro di Taranto…»
«Salvo per un morso!». Detta così può sembrare un’esagerazione, invece la storia di Muzi, giovane gambiano, salvato da Sadiki, guineano, è tutta vera. Dal dramma al lieto fine, se non fosse che nei loro cuori battono anche quelli di centotrenta fratelli neri ingoiati da un mare in tempesta e un imbarcazione che faceva acqua da tutte le parti. E non da principio, bensì nel bel mezzo del viaggio.
Muzi, il lieto fine. «Per quello c’è tempo – ci aveva raccontato non senza una certa emozione – la storia è lunga e complicata, un brutto film nel quale la gente che urla e affoga in mare aperto è vera, non sa nuotare, non trova un bidone, una tavola, un gommone al quale aggrapparsi per sfidare le onde del mare aperto alte quanto un palazzo: di notte il mare è un inchiostro, ad ogni onda perdi di vista i tuoi compagni di viaggio, poi li rivedi, provi a contarli e all’appello ne manca sempre qualcuno: una disperazione, hai l’impressione di morire ogni minuto, come se stessi vedendo te al prossimo doloroso giro».
Esattamente quattro anni fa. «Partiamo dalla costa libica – ricostruisce Muzi – ognuno di noi si era svuotato le tasche da quei pochi soldi che aveva rimediato con lavori saltuari: meglio che niente, lavorare, anche faticando come fossimo bestie da soma, che non cadere fra le mani di uomini in divisa – che fossero militari o qualcosa di simile, non potrò mai saperlo – che ti sbattono in un capannone e ti ci chiudono dentro, per picchiarti e convincerti che se vuoi avere salva la pelle è meglio che ti metta in contatto con la tua famiglia e chieda loro i soldi del riscatto».
MIO GRANDE EROE!
Dunque, la partenza. «Oggi non posso dire nemmeno di essere stato sfortunato, visto che me la sono cavata grazie alla generosità di un vero fratello, Sadiki, che mi allungò un bidone al quale mi abbracciai per galleggiare: stavo per andare a fondo, non avevo più forze per tentare altre bracciate, provare a nuotare, quando vidi questo ragazzone che invece di tenersi stretto a quel salvagente di fortuna, senza pensarci due volte mi allungò quel bidone, la mia salvezza. E pensare che mentre mi sentivo trascinato a fondo, gli tirai un morso disperato, quasi volessi aggrapparmi alla vita con le mani, i denti. Per fortuna, interpretò quel morso come un gesto disperato e non di sfida…».
Il dramma, i pianti, le urla strazianti. «Purtroppo non era un film, quelle erano urla vere che venivano ingoiate da un mare che non perdona: partimmo in centosessanta, più o meno, almeno in centotrenta ci avevano rimesso la vita: in alto mare quella “bagnarola” cominciò ad imbarcare acqua, entrava da tutte le parti, per giunta scoppiò anche una camera d’aria laterale; da quel momento non si capì più niente: avete presente “Si salvi chi può!”? Ecco, proprio così, chi non sapeva nuotare rimaneva su quello che restava dell’imbarcazione che poco per volta scompariva fra le acque agitate; gli altri, in mare, fra le braccia qualsiasi cosa potesse tenere a galla, bidoni, camere d’aria, qualsiasi cosa…».
Sadiki, lo aveva perso di vista. «Pregavo per me e per lui, per quanto avesse un fisico robusto, quelle onde che ti sbattevano a venti, trenta metri di distanza, non poteva avere tanta autonomia; fu un istante, forse era lui, magari volevo fosse lui, volevo si salvasse: vedevo l’unico sorriso di incoraggiamento fra tutti quei volti segnati dalla disperazione, mi piaceva pensare fosse Sadiki quel ragazzone tutto muscoli che mi passò un istante accanto, anche lui abbracciato a un bidone vuoto con un pollice infilato in un foro».
UN BEL GIORNO, IN CITTA’…
Tratti in salvo. «Pescatori libici che ci aiutarono a tornare a riva, ma senza consegnarci ai militari: sarebbe stata la fine; aspettammo un’altra imbarcazione, questa volta andò meglio, sbarcammo in Sicilia. Di Sadiki avevo perso le tracce e ogni speranza che si fosse salvato…».
Invece, un bel giorno. «Centro di Taranto, via D’Aquino: vivevo a Martina Franca, ospite di una comunità, quando decisi di farmi una passeggiata in città insieme con alcuni amici miei: fu un attimo, incrociai altri ragazzi che venivano dalla parte opposta. “Ma sei tu? Proprio tu?”, e lui: “Sì, io, proprio io, Sadiki!”. Non conoscevo ancora il nome del mio salvatore, me lo stava rivelando in quel momento. E’ l’abbraccio più caloroso che abbia mai dato e avuto, scoppiammo a piangere: ci staccavamo un attimo, ci guardavamo in faccia e ci riabbracciavamo, e ogni volta l’abbraccio era più forte: sotto la stretta di Sadiki c’era da restare senza fiato».
Un pianto a dirotto e liberatorio, la storia aveva avuto almeno un lieto fine. «Mi chiamo Muzi! Ci scambiammo il numero di cellulare, ci giurammo che non ci saremmo mai più persi di vista: gli devo la vita. E pensare che tutto era cominciato con un morso disperato…».